Smonamento

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Fa notizia la grande sofferenza di pochi, non fa notizia la piccola sofferenza di moltissimi, eppure andrà certo a cumularsi da qualche parte e colerà bene in qualche chiusino, che non sarà quello del nuovo bum nè dell’anno bellissimo.

In milioni siamo da inizio anno messi a testa in giù nel waterboarding di quell’esperimento coercitivamente legale di ingegneria sociale che si chiama fatturazione elettronica, e si è sentito qualche titolo di giornale, qualche servizio televisivo, qualche programma radiofonico che prendesse sul serio la cosa? E poi dice che i giornali li comprano solo più i bar (mi piacque quel cartello Chi Tiene il Giornale più di Dieci Minuti è Pregato di Leggerlo ad Alta Voce).

Farò allora minima opera di nominalistica verità che mi renderà almeno mentalmente libero, visto che quel poco di libertà dal bisogno mi è stata il mese scorso completamente confiscata dall’E_Fattura.

La prima considerazione che faccio è sulla tecnologia e i suoi sacerdoti. Ci sono in giro delle piattaforme per la fatturazione elettronica messe su con tale indifferenza per l’utilizzatore da prendere la forma di nuova crudeltà. Non voglio spingermi fino a una Norimberga per i programmatori, dove certo risponderebbero che hanno solo ubbidito, ma mi auguro che ci sia ancora una giustizia veterotestamentaria e una bolgia tutta per loro. Coltivo d’ora in poi un sano interesse per il luddismo.

La seconda è sulla nuova struttura dell’impresa economica. Non si basa più sul rapporto duale tra cliente e fornitore fondato su smithiana simpatia, ma si presenta come un grafo ternario in cui C e F sono connessi attraverso lo Stato Fiscale, con i caratteri psichici del padre onnisciente. Si tratta di ultimissimo chiodo sulla bara del mercato, che è vero era cadavere già da un pezzo, e sigillo della natura sociale dell’impresa. Non si tratta più di vendere un buon prodotto, ma di generare iva a debito, disumanizzazione e macchinizzazione.

Si possono superare le leggi economiche con tale slancio volontaristico (la rincorsa è cominciata con quelli di prima, tanto per dire la continuità) senza incorrere nell’eterogenesi dei fini? Avanza nel silenzio di Dio lo Smonamento della funzione imprenditoriale, l’unico indice di cui vedo una bella crescita.

Le territoire agonise. Una microbiologia

Un sociologo francese, Bertrand Badie, scriveva negli anni ’90 di agonia del territorio di fronte alla potenza delle reti. Si può trasferire questo verdetto dal suo sfondo geopolitico alla scena vinicola? Per molti versi sì, basta pensare a come sono diventate determinanti le esportazioni di vino per la salute economica delle aziende. Per altri no: non si esporta proprio un territorio?

Anche nel vino sfuso, un settore di retroguardia, visto che riguarda consumi interni in calo secolare, il territorio è insieme una forza e un attrito per quel po’ di mercato di cui ancora campiamo i miei concorrenti ed io.

Sono al telefono con un produttore della provincia di Asti. Scusa, chi me lo fa fare di comprare una barbera di 15 gradi con sette e mezzo di acidità? I miei clienti hanno l’esofago delicato e non mangiano continuamente salame o bagna caoda. Scusa, ma perché devo fare una barbera d’Alba se faccio il vino a Costigliole? Senti, non è che in tutta la provincia di Asti la barbera sia come la tua. Vuol dire che l’arruffianano. Quest’anno l’ho raccolta tra gli ultimi, e ben, avevo quasi 16 gradi e 8 di acidità. Però la mia tra 10 anni è ancora a posto con 25 mg di solfiti, se ha cinque e mezzo di acidità tra un anno lo trovi un vino molle, etc.

Eppure è un fatto che si beve locale. Vorrei tentare perciò un’interpretazione microbiologica del territorio, che spiega perché hanno un senso i vini naturali.

Si beve territoriale perché c’è una parentela batterica tra il microbiota e lo strato pedologico, tra l’intestino e il terreno, e la città è misteriosamente aperta su questa continuità, vuoi che avvenga per filamenti fungini sotterranei o per correnti microbiche aeree o per resistente memoria storica di cose assenti. Mi portò a simili ragionamenti un articolo di Michael Pollan sul microbiota. L’articolo contiene l’importante concetto di patina fecale, che coprirebbe il mondo che abitiamo. Parmi l’Italia un posto adatto per studiare il fenomeno, qui più che patina sembra una mano di vernice.

In memoriam

Tra un paio di giorni ricorre l’anniversario della morte di Caracciòlo Piero, ne parlavo qui 9 anni fa. E’ Giovanni che mi vuole mostrare la sua foto, da una qualche pubblicazione che ormai solo una parrocchia di campagna può produrre — bisogna che ci sia un qualche senso di comunità dietro un foglio così, e sentire che ne fanno parte vivi e morti. Nella Città-che-non-sta-ferma hanno ragione solo i vivi, e tra questi di più quelli che comunicano, ad alta voce nel loro quarto d’ora o con programmatica costanza se scelgono l’alt-spazio.

Caracciolo 75 enne

L’occhio di Giovanni è umido mentre spende due parole di intima commemorazione. Perché Caracciòlo Piero ha vissuto come un passero evangelico, senza domani, senza casa — randagio, non lingèra — ma non senza un mestiere. Non stendeva la manina mentre l’altra ripone uno smart phone nella tasca posteriore, come è così comune vedere fuori dei nostri supermercati. Anzi, non ha mai rivendicato la pensione! Fu il sindaco di Calosso che, quando Caracciòlo era alla soglia degli 80, si diede da fare per bugè le carte per fargli avere la sociale e così un reddito con cui internarlo all’ospizio di Incisa Scapaccino. E forse accorciargli la lunga vita, aggiungeremo. Oh strade lastricate di colpevole pensiero unico, oh foucaltiane buone intenzioni di assistenza nella provincia astigiana!

La foto risale ad almeno undici anni fa, prima che venisse ripulito dal Welfare. Possiamo ipotizzare che avesse 75 anni — che tempra ancora! La sigaretta rollata, la bottiglia di vino nel sacchetto di carta, sullo sfondo casa sua, l’Aperto, il capello che non cade ma tende alla volta celeste…

Sospetto che Giovanni non si confessi che Caracciòlo Piero sia l’unico esempio concreto di esistenza alternativa alla partecipazione al Baraccone Insostenibile, con corredo di sofferenza da reddito obbligatorio, e anch’io se mi guardo attorno non vedo molto. Anch’io mi identifico quando sento che i cesti di Caracciòlo costavano talmente poco che l’acquirente lo incitava a prezzarli più alti, e Piero rispondeva che era già tutto così caro. Oh Caracciòlo bastione del potere d’acquisto, oh rifugio randagio di un’economia di mercato responsabile!

Un vino due etichette

Nella ripetitiva temporalità di un’azienda agricola ci sono delle discontinuità, i figli a un tratto sono cresciuti e parlano inglese, il progetto acquista la profondità delle generazioni. Si cambia etichetta. Si comunica.

etichette_a_confronto_480La carta da opaca si fa lucida. Dal fondo bianco, evocativo di un pranzo domenicale, si passa a un nero serale, più adatto a una cena di seduzione. Dalla distribuita presenza del testo si svolta a un grafismo centralizzato, il nome del produttore va fuori scala per sicurezza di essere letti, gli spazi, prima delimitati secondo rapporto aureo da un accenno di onda rotatoria taoista, oggi comprimono in basso una fascia bianca, di indole gaja.

Si semplifica. Dell’intestazione burocratica, prima cognome e poi nome, rimane un concetto nuovo e più audace: Family Farm. La famiglia e il radicamento si presentano ad estranei in lingua estranea: la bottiglia risulterà estranea o famigliare? Parmi contraddizione ombelicale.

E mi chiedo: i mercati esteri sono forse per sempre? Chi è sicuro che non ci sia un dazio all’orizzonte? Colui è certo che non c’entrino nulla ZIRP e NIRP? Sembra a colui possibile che questa piramide di carte da gioco sia costruita sulla roccia e non abbia invece la tremante natura di gomito smemorato affetto da Parkinson?

Nebbiolizzazione

Avviene una nebbiolizzazione del Piemonte, espressione sentita per la prima volta sulla bocca di Sandro Barosi. Vi concorrono ragioni di mercato, i viticoltori estirpano dolcetto per piantare nebbiolo ingolositi dal prezzo. Sono vittime di mode o razionali calcolatori delle forze in scena? Vi ha infatti ruolo di primo piano la Regione, con costruttivistico progetto di sporgere il Piemonte vinicolo sui mercati esteri, a confrontarsi con una Borgogna Pinot Nero, un Bordeaux Cabernet Sauvignon.

A monte le diagnosi sbagliate dell’economia pianificata, a valle controlli ferrei, sistematiche visite di polizie, incremento metodico di costi via regolamenti. E’ così che si incentivano gli uni e si scoraggiano gli altri, così si creano i deplorables agricoli, i left behind di campagna, i forgotten men del Piemonte eccentrico. Piemonte o Langhe Nebbiolo? La lotta è al coltello, secondo rumors i carabinieri che hanno contestato la frode al presidente del Consorzio del Barolo non arrivano da Alessandria per caso.

Nas attivi anche con i piccoli, vanno gentilmente da Giorgio Sobrero a prelevare campioni per analisi del DNA, che sul mercato valgono 700 euri ciascuna, e stabiliscono che uve, se zucchero o acqua aggiunti. Sobrero gentilmente considera che l’effetto combinato dei disciplinari, che impongono il diradamento; del clima, che alza il grado al limite; dei controlli sul tasso alcolico, che vogliono lo zero, mette il produttore nella gentile posizione di Houdini in catene sott’acqua.

Per andare da Sobrero mi fermo da Destefanis a ritirare un campione. Gianpaolo non c’è, la mamma mi offre un caffè. Noto padella sul putagè, che bolle su fuoco alto, chiedo cosa prepara. Il dado. Mezzo chilo di tutto, cipolla carote sedano carne, un’erba che non ricordo, sale q.b. Cottura a restringere, poi si passa, si imbarattola caldo e dura un anno. Il problema sono le verdure, una volta erano più secche e gustose, oggi una carota vale un sedano, il più è acqua. E impestate più della carne. Mentre giro il cucchiaino mi chiedo se in un’orizzontale alla cieca troverei il dado di Miss Dado più buono di questo dado degli ultimi giorni.

Nebbiolo Natale

Nebbiolo da qui a Natale, bella notizia perché stare senza è come giocare senza il centravanti titolare.

Riepilogo i fatti: da un anno non proponiamo nebbiolo, perché ha preso dei prezzi all’ingrosso troppo alti. Potrei girare gli aumenti sul prezzo di vendita, ma qui entra in gioco la visione di fondo — non credo tanto così alla ripresa, nè mondiale, nè americana, nè italiana, il sistema è insostenibile, è uno schema Ponzi questo sì globale, in cui si cura il debito con più debito e l’unica colla che lo tiene insieme è il monopolio della forza e l’universale manipolazione. Perché dovrei cedere sul prezzo del nebbiolo e far finta che un mercato ancora esista? Al diavolo, amico! Al primo posto sta il tuo e mio potere d’acquisto, non mancano le cose buone e sostitutive.

Questo nebbiolo-natale è da zona eccentrica, Albugnano, la più piccola doc italiana. E’ un po’ più scuro di quello di Langa, meno viola al naso forse, ma ci sono altre cose e una personalità giovanile e atletica, senza essere muscolosa. Mi piace molto. E non credere che sia il primo e unico, dalla Langa vengono ad Albugnano ad acquistare le uve se non il vino, a prezzi che qui non si sono mai visti, alla faccia del prodotto territoriale.

La provincia di Asti vorrebbe il Piemonte Nebbiolo, la provincia di Cuneo resiste per ovvi motivi. Io non saprei per chi votare, come per il più famoso referendum, il più pulito ha la rogna. Si potrebbe andare al mare, il mare d’inverno è così elementare, spaesa e guarisce.

Valdibella agricoltori.bio

Dal 3 giugno 2016 è aperto a Torino in via Genè 5 un punto vendita bio a filiera corta, dove fare una spesa bio non svuota il portafoglio. Si chiama Valdibella agricoltori.bio . In primo piano sta il fresco (frutta e ortaggi) e lo sfuso (legumi, cereali, frutta secca e altre materie prime). Vi si fa anche del pane con una forte personalità e un po’ di cucina da campo.

Il vino c’è, ma in secondo piano. Vinologo è tra i soci fondatori dell’impresa. Perché?

C’è con la Cooperativa Agricola Valdibella una consuetudine ormai decennale, diventata amicizia. Quando incontro le persone della cooperativa siciliana, sempre rimango colpito dalla pazienza, dall’assenza di disperazione, dalla fiducia interna che le cose buone vanno un passo alla volta. Ne esco un po’ guarito, come la donna che Gli toccò la veste in mezzo alla folla.

C’è l’apripista, il Marché Bio des Tanneurs a Bruxelles, visitato due volte, trovato un posto molto vivo, nel segno della qualità senza nome. Valdibella agricoltori.bio è su quelle stesse orme.

C’è il progetto, che è un progetto di mercato – evitare il modello convenzionale del bio, dominato dalla logistica, che mette in tensione il consumatore e il produttore, offrire un bio popolare – ma anche uno stile di vita: stare essenziali, ricordare che le piccole cose in cui ci perdiamo sono su uno sfondo più grande di noi.

Oltrepò

Tornato in Oltrepò pavese dopo qualche anno, stessa sensazione di territorio corrotto, di donna che ebbe nonna di bellezza, di gamba forte, certo, ma tratti del viso promettenti, mentre oggi l’erede ricorda il crollo di una diga, una Liguria continentale.

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Eppure non c’è solo vino-massa, il moscato per il Piemonte Moscato o il pinot grigio per anonimi mercati esteri, di rigore il 12 gradi. Il pinot nero non è solo una base spumante, puoi tornare con un pinot nero del 2012 maturato in legno piccolo, raccolto troppo tardi e di conseguenza troppo alcolico, ma troppo per chi? Un bel vino-nonostante, grazia di Dio che perdona creature inette.

E insieme, come barattolo legato dietro l’auto nuziale, una bottiglia di Buttafuoco del 2010, da una delle tre vigne storiche, Vigna Badalucca, e accogliere che sì, un altro barbaresco è possibile, e rimanere interdetto pei poteri della Vespolina.

Goodbye Nebbiolo

Su sfondo deflattivo, mentre crollano le materie prime, assistiamo perplessi all’impennata dei prezzi del nebbiolo. Non tanto in forma di barolo, quanto in forma di barbaresco, che fino all’anno prima aveva uno spread rilevante, e a seguire del Langhe o D’Alba. Fin il Roero va su.

Che sia per le annate scarse, qualche grandinata, o la domanda estera, saremmo tentati di piegare le braccia a rombo, sporgere il mento e dire me ne frego. Neanche lo posso chiamare nebbiolo, sono ridotto a N, come Nicola o Norberto, Rivetti. E che, se non c’è Borgogna, berremo Bordeaux.

Si estirpa dolcetto e si pianta nebbiolo, il tempo non sta con l’euforia irrazionale, basta sedersi sulla riva del fiume. Mi è già capitato con l’arneis, rimasto senza due anni, poi il cadavere passò.

Certo, non si rinuncia volentieri all’eleganza, vera cifra dei vini piemontesi – non la potenza – nell’opinione di Claudio Solìto, che è monferrino. Potrei allora alzare il prezzo, e stare con Nicola o Norberto.

Ma va contro certe mie convinzioni, che il vino sfuso debba essere anticiclico, un piccolo contributo al potere d’acquisto di mio fratello Mario, figlio unico, odiato tartassato derubato.
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Il mio mercato è questo, manovre di retroguardia, un tenere posizioni dietro le linee nemiche.

bicchiere_degustazione_220In questo invece, occupato da aspiranti sommellier iscritti a un corso tenuto da supermercati pretenziosi ispirato da guide impolverate compilate da servi vestiti da idealisti, marciano in avanti, illuminati da un raggio luminoso.

Termino con citazione dal Digiunatore di Kafka, dedicata a mio fratello Mario, figlio unico, che non si dia troppa pena, e a Giovanni, che riesca ad alleviare le ginocchia di 10 chili.

Egli solo sapeva – e nessun iniziato lo sospettava – quanto facile fosse il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere.

Tre merlot

Sul Merlot ho due ormai lontani ricordi. Amalia Battaglia di Cascina Corte NON beveva Merlot. Batman Battuello riteneva che in molti Baroli d’esportazione ci fosse una certa quantità di Merlot. Probabilmente hanno in comune lo stesso presupposto: il Merlot è l’antitesi del terroir.

Il successo del Pomerol e St.Emilion sulla scena globale è degli anni ’80, in Piemonte molte vigne di Merlot hanno una ventina d’anni. Negli anni ’90 infatti vanno di moda dei blend di locale e globale, che so barbera nebbiolo cabernet sauvignon, invecchiati in legno. La moda è passata, i blend sono confinati nella denominazione Langhe con un mercato residuale, in Monferrato il Merlot si è adattato all’epoca delle varietà in purezza con un mercato ancora più difficile.

Alla Viranda si considera il Rus ‘d Vitorio, il loro Merlot in purezza, una bottiglia da tedeschi. Ciò non ha niente di spregiativo, semplicemente i piemontesi non bevono e tanto meno comprano una bottiglia di Merlot neanche sotto tortura. Nella scala delle difficoltà commerciali il Merlot sta un gradino più in basso ancora del Cabernet Sauvignon. E invece il Rus ‘d Vitorio 2010, che esordisce con una macerazione di 60 giorni, è un rosso che ha potenza, struttura e una trama vellutata che vuole ancora qualche tempo per esprimersi. Rapporto qualità prezzo eccezionale.

Gianni Doglia fa un Merlot in purezza più legnoso, che chiama !, un grosso punto esclamativo. Ne fa 1000 bottiglie, costa quasi il doppio del Rus ‘d Vitorio, ma non è buono il doppio. A detta di non so quale critico che scrive sulla Bugiarda è il Merlot più buono d’Italia, compresi i toscani.

Andrea Binello di Pianfiorito ha voluto piantare dei vitigni internazionali – Sauvignon, Syrah e Merlot – solo qualche anno fa, è da poco in produzione. Il suo Merlot è maturato in acciaio e mi è piaciuto molto. E’ caldo, morbido, con le sue giuste cose di prugne ma non troppo marcate, con un rapporto qualità prezzo buonissimo. Un Piemonte Merlot, perfetta contraddizione in termini.