Braghet amar

gamba Dai Gamba sono dovuto andare cinque o sei volte prima che si sgelassero. Alta langa ritrosa e taciturna, il caffè di accoglienza posso ben dire di essermelo meritato, ci vanno due ore per raggiungerli in contrada San Giorgio, comune di Sessame. Qui il dialetto sente l’aria del mare, lessico e cantilena hanno un po’ di Genova.

Ci vado per il braghet amar, il brachetto vinificato secco, fratello minore del ruché, rosso aromatico che sa di rosa, perfetto con desinari leggeri, minestre e formaggi freschi. Penso che all’ala sinistra nella nazionale di Soldati degli anni ’50 ci fosse questo tipo di brachetto, non quello spumantizzato dolce conosciuto ai più. Lo compro senza doc, lo chiamo birbèt sec.

I Gamba mi piacciono per il brachetto, le parole contate e il chiamarsi fuori. Fuori dal sistema doc. Abbiamo avuto spesso problemi, racconta Lorenzo, con la Camera di Commercio per il Brachetto d’Acqui e il Moscato d’Asti. Come mai? Sorridono. Forse era troppo buono, non so. Ma ho rinunciato alla denominazione quando una volta mi sono preso lo sfizio di prendere un po’ di Moscato, schiarirlo col carbone vegetale, allungarlo di una parte su 10 con l’acqua del rubinetto, aggiungere un pochino di acido citrico e spedirlo come campione alla Camera di Commercio. Quello me l’han passato subito. Quello si vede che era tipico.

E’ dopo questo racconto che ho riconsiderato la grafica dissuasiva del mosto parzialmente fermentato di brachetto dei Gamba, il Susina, e ne ho comprato qualche bottiglia non dirò con entusiasmo, ma almeno con partecipazione. E non ho aggiunto altro quando alla domanda perché Susina, Lorenzo mi ha risposto: perché mi piaceva così.

Rch

marengoMario Soldati lo chiamava Ruké, io sono costretto a chiamarlo Rch. A Soldati era antipatico, lo descrive ripido: tutto uno scalino. Per me è un vino delle feste. Lo compro da Massimo Marengo a Castagnole Monferrato. La cantina di Massimo Marengo è impressa nella mia memoria come uno dei posti più freddi della terra. Massimo conferma, Castagnole è un posto di merda, tira un’aria assassina.

Siamo 30 produttori di ruché. La zona buona è questa qua, fa segno sulla sinistra, se vai a Viarigi o a Grana, la devono tagliare con uva di qua per farlo buono. C’è chi va dietro ai parametri, e viene tutti gli anni uguale, ma ti sfugge dalla mente. Io, e anche gli altri, ogni anno è diverso, così non c’è un produttore su cui puntare senza fallo. Anche Nadia, 2 su dieci sono così così.

La cantina si addentra nel sostrato a collegarsi al vecchio crutin, scavato in un tufo morbido, dal tatto polivinilico. Non come quello di Casale, adatto a costruire. Il suolo è calcareo argilloso.

Soldati assaggiò nel ’75 quello dei Meda. Fulvio Ferrari comprava quello dei Meda in damigiana negli anni ’90. Parlai al telefono con Meda qualche anno fa, lo imbottigliava tutto e si considerava un po’ l’inventore del ruché.

Per Massimo Marengo, Meda fu il propagatore. Era vivaista. Prima ce n’era sparso tra i filari, nessuno lo faceva in purezza. Negli anni ottanta ne producevo 1500 litri, oggi più di 10 volte tanto. E’ un vino che si è diffuso col mercato. Io vendo soprattutto a Torino, nell’alessandrino e un po’ nel milanese. Una volta era spesso abboccato e poteva anche mussare in bottiglia. Non riusciva sempre a sviluppare tutti gli zuccheri. Nel disciplinare si può mettere un 10% di barbera, o brachetto. Qualcuno mette un po’ di malvasia, lo riconosci se è troppo profumato.

Novembre pecorino

asciuganoPrimi di novembre, appuntamento con il vino novello in damigiana. Lo fa Giorgio Ferrero a Pino d’Asti da uve freisa. Quest’anno, a evitare la burocrazia del titolo novello, è un vino da tavola. Ma la sostanza — parola chiave 2009/2010 — è sempre quella. Vinificato a macerazione carbonica per esaltare i profumi primari e il colore profondo e brillante. Niente trucchi, niente tagli. Beaujolais, Freisolay.

Giorgio lo fa da vent’anni, ha provato tutte le varianti. Macerazione carbonica vuol dire rovesciare le cassette di uva in un contenitore d’acciaio, saturarlo di anidride carbonica e sigillarlo. Normalmente sta così 10 giorni, Giorgio lo lascia qualche giorno in più. Dentro, qualche acino si rompe e il succo comincia a fermentare creando altra CO2, qualche acino rimane integro e quando lo tiri fuori è gonfio e croccante. Dopo questo periodo, si toglie la massa d’uva e mosto dalla vasca e si pigia normalmente. Molti tolgono presto dalle bucce, Giorgio lascia ancora tre giorni. Quest’anno il suo novello fa 14 gradi.

Gli chiedo chi ha inventato la macerazione carbonica. Boh, sicuramente è nato per caso, qualche francese ha lasciato dell’uva in tino sigillato e poi ha cominciato a ragionare. Giorgio Ferrero è impegnato col PD, pensa che la colpa sia delle banche e la soluzione sia una patrimoniale.

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Edoardo Bresciano è stato tentato dal sindacalismo agricolo, poi considerando con più attenzione il tipo di agricoltore della provincia di Cuneo, ha pensato che meglio fosse farsi gli affari propri, tirare su qualcosa di bello nel suo orto a Savigliano. Ha letto due volte il Dilemma dell’Onnivoro, si è innamorato anche lui di Joel Salatin e ha adottato in modo personale il suo metodo di recinti mobili per pascolare le oche. Ha comprato dei riproduttori e un’incubatrice, vuole crescere i propri animali, sono più grossi e più belli.

Edoardo legge Steiner. Per essere certificato biodinamico dovrebbe frequentare un ciclo di diciannove incontri di tre giorni ciascuno. Ma io lavoro in campagna, come fanno a pensare che possa partecipare a una cosa organizzata così.

Mi piace molto il percorso di Edoardo e per accompagnarlo voglio vendere almeno un quintale di salami d’anatra del Corsaro e di cotechini d’oca, che non ci sono a Eataly.

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A proposito di vini per caso. Sergio Delai aveva in mente un passito dalle uve rosse che si coltivano sul Garda Bresciano, groppello marzemino barbera e sangiovese.

Appassisce a ventilazione forzata, fa una macerazione lunga e mette in barricche. Confida che l’alto grado alcolico blocchi da solo la fermentazione. Ma qualche volta il grado alto non basta. Il suo passito prosegue la fermentazione, consumando più zuccheri. Ottiene un vino inclassificabile, un piccolo amarone spaesato. L’abbiamo chiamato Ron Ama Ron. In questo momento ho una carta dei vini che mi sembra di allenare il Real Madrid.

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Stato a Fornovo, fiera dei vini bio e naturali. Qualche edizione fa era una cosa frequentabile, oggi è una baraonda in cui scambiare due parole è un’impresa. Prezzi alti e solo bottiglie da tre quarti, mi sento un po’ fuori luogo.

Lacerti di discorsi. Il biondo di Ca’ de Noci mi fa assaggiare la sua Spergola rifermentata in bottiglia. La senti questa freschezza acuta, quasi dolorosa. Cambio banchetto.

C’è Pietro del Consorzio, che mi critica perché non mi è piaciuto il Cremant d’Alsace di Binner. E’ ossidato voluto, non bisogna avere tutti questi pregiudizi. M-m.

C’è Barosi, impressionato perché la folla non si divide equamente tra il banchetto del Pommard bio e il suo nebbiolo bio. Poco interesse per il Piemonte, dice. L’ultima volta che sono andato a prendere da lui del dolcetto, l’ottimo Pirochetta, mi ha aperto la cantina un rumeno, la porta di casa una peruviana, mi ha porto la fattura un’americana e sullo sfondo un’italiana faceva le pulizie. Manco in Chianti, ho pensato. Ci sono un mucchio di aziende bio toscane condotte da milanesi.

Mi è piaciuto il contadino di Monteforche, a Vo sui Colli Euganei. Mio nonno andava a prendere il vino a Vo, e oggi il fratello di mia mamma. Ricordo Vo come un posto del cavolo e gli ho chiesto cosa gli piace di Vo. Mi ha detto guarda che i Colli Euganei ti stregano. Non aveva biglietti da visita e neanche bottiglie da vendere. Appena posso vado a trovarlo, e penserò a mio nonno e a mia nonna.

Ma lo squarcio nella mia breve permanenza a Fornovo l’ho avuto pur io. Un uomo di 100 e passa chili pranza di fronte a me, troppo rude all’aspetto per essere un viticultore bio. Lo ritrovo fuori che fuma. Chiedo se è un visitatore. No, sono qui col pecorino. Pecorino da dove? Da Scanno, 100 chilometri a sud dell’Aquila. Terremotati? No, altra faglia. Sto a 1300 metri d’altezza tutto l’anno tranne l’estate. L’estate salgo a 2000. Tengo 1500 pecore, 40 vacche, 40 capre, maiali, conigli, e trenta cani. Trenta cani? Per tenere insieme le pecore? No, per difesa. Difesa da che? Dalle bestie selvagge. Lupi. Linci. Orsi. Anche le bestie selvagge sanno che l’uomo è l’animale più cattivo, e sanno che dove latra un cane, c’è un uomo.

Per tutto il viaggio di ritorno ho sognato l’Abruzzo.

Colli Euganei

Mentre apriva la portiera osservò la bava grigia che copriva la ruggine dove si crepava la vernice coreana. Si chiese quanto vi fosse dell’alito dei suoi concittadini, e quanto di quello che inspirava fosse da loro espirato. Contò che una parte su settanta di quel lurido cocktail era fiato o scarico di un dipendente comunale. Portò la destra al fegato, cercò un pezzo di asfalto pulito e sputò. No, non era Knoxville, Tennessee. Salì sul furgone e mise in moto.

Era l’una e trenta legale di una giornata che più in alto era luminosa. Era diretto a Quistello e voleva evitare la nebbia col buio. Non sapeva che quella nebbia che aveva in mente, quella nebbia che molli la bici e sta in piedi da sola, quella nebbia non c’è più. Altro era da temere, la scrupolosa osservanza degli orari dei dipendenti della cooperativa. Quando arrivò allo scadere e ancora lo servirono, pensò che la mano del Signore era su di lui e fu grato.

Da Quistello a Ostiglia attraversò un buio padano dove nere erano le vacche e neri gli autoctoni. Dopo Mincio e Po, valicò l’Adige su un ponte militare. Era nella Serenissima.

monteforche Il mattino aveva appuntamento con Stefano Menti per fare visita ad Alfonso Soranzo sui Colli Euganei. Stefano è una figura insolita di produttore curioso di quello che fanno gli altri. Alfonso è sprofondato nel luogo che abita e lavora, non ha sito nè collegamento internet. In comune hanno la garganega. Il sostrato di Alfonso è vulcanico, quello di Stefano un lembo di Alpi.

Assaggiò. Consentì a farsi stregare dai Colli. Ascoltò cosa succede ai tuoi vini se tu non usi antibotritici, ma i tuoi vicini sì. I vini erano buoni puliti e giusti, ma più buona pulita e giusta era l’assenza di pensiline inutili e costose infrastrutture, la lontananza di élite altruiste, la signoria della manutenzione ordinaria.

Totò en Bresse

Prima metà di agosto, soggiorno a Montrevel. Ogni mattina, andando a prendere una baguette, sosto davanti alla carta di Lea. Sospiro sui prezzi del menu e ammiro la lista dei vini, così stringata, così precisa. Otto vini e nessun borgogna.

La lista mi parla: attento, sei nella Bresse. Idealmente parlando, qui costruiamo in terra cruda, la Borgogna in pietra. Se ci fosse ancora un patois, qui parleremmo una specie di occitano, la Borgogna parla francese. La storia ci fa rivolti a sud, per questo vedi i vini del Bugey e di Borgogna quel lembo che ci è più vicino, il Maconnais.

Ascoltiamo dunque la lista di Lea, andiamo a cercare il Viré-Clessé di Jean-Pierre Michel.

Lo troviamo a Quintaine, a metà strada tra Viré e Clessé. Jean-Pierre lavora su 7 ettari, usa lieviti indigeni, potremmo definirlo vicino ai vini naturali. Viré-Clessé è una doc relativamente recente. Cosa distingue uno chardonnay Puilly-Fuissé da uno Viré-Clessé? Il Puilly-Fuissé è lontano dalla Saône 6 km, il Viré-Clessé 2, questo lo espone a delle correnti d’aria più fresche, a una maturazione più lenta. Cogliere il punto di maturazione giusto dell’uva è forse l’atto più decisivo per i vini di Jean-Pierre Michel.

Assaggio il 2007. Un buon chardonnay. Ma poi provo il 2006 e questo sì che si fa notare. Sembra quasi un passito ma con la freschezza del vino da pasto. Jean-Pierre dice di aver proceduto nello stesso modo nel 2006 e nel 2007, tutta la differenza che sento è dovuta all’annata. Fu un luglio molto caldo e un agosto freddo, alla vendemmia l’uva era eccezionalmente carica di sostanza e di zuccheri. In trent’anni di lavoro gli è successo forse due volte di avere un vino così.

Amici e clienti, è questo Viré-Clessé fuoriclasse che vi porto, rendiamo grazie alla lista di Lea.

Vi porto anche da accompagnarlo, terrine di fois gras e paté di canard in tre preparazioni diverse, preso a Dommartine in una ferme tres tres bressane, tres tres ruspant.

Vi porto del Crémant de Bourgogne preso nella sua patria a Rully sulla Côte Chalonnaise, di Ponsot agricolo figlio di agricoli.

Vi porto del Givry di Vincent Lumpp, 1er cru le Clos du Cras Long 2006, buono per i prossimi 10 anni e più.

deretourE vi avrei portato ancora della borgogna bio e rebelle, se incrociandola da nord a sud avessi trovato uno, dico uno, dei miei indirizzi che non fosse in vacanza. Sette porte chiuse e sette campanelli senza risposta trovai alla ricerca dell’altra Borgogna, che bio-delusione. Che inane rappresentanza del territorio.

In effetti anche quella più ufficiale era in mano alle mamme e alle nonne, donne che non rinuncerebbero a una vendita neanche per stare in spiaggia col marito o figlio vignaiolo. Da una di loro vi porto un 1er cru di Volnay, dopo Musigny la zona dei rossi più eleganti della Côte d’Or.

Ma ormai tutto il mio desiderio era verso il Bugey di Lea, i nomi di Seyssel, Chiroubles, Montagnieu mi risuonavano come i nomi delle stazioni nel cuore di Proust.

Non ebbi più tempo. Solo potei puntare al suo lembo occidentale, il Revermont. Da Tossiat vi porto delle bollicine rosate di gamay, l’uva del beaujolais, coltivato da Christian Ballet vignaiolo part-time, e dentro di me il ricordo dello spuntino forse peggiore della mia vita non breve.

Canavese

remo Torinese, anche se bastano 40 minuti, non andare da Cieck. Non guastarmi quel silenzio che accoglie nell’ultimo tratto, prima di attraversare l’ingresso ad arco in muratura. E’ più di un silenzio di campagna, è il silenzio di Cieck.

Non affollarmi il cortile. E’ tutto un pò più piccolo dell’odierno e voglio interrogarmi in pace se sia della taglia di generazioni con meno proteine, o la sapessero lunga sul clima e la coibentazione. Lì è la cantina, sbassate la testa o voi ch’entrate.

Per festeggiare, non andare a comprare il San Giorgio, spumante di Erbaluce. Fermati da Panorama e prendi uno champagne col triplo di solfiti dentro. T’insegnerà che per ogni gioia c’è una penitenza, e io avrò le ragazze di Cieck tutte per me.

Compra la decimilionesima parte di una produzione industriale, non la decimillesima della storia di Remo Falconieri, che fu tecnico ricercatore all’Olivetti, inventò la testina rotante per le macchine da scrivere elettriche, e quando Debenedetti sbriciolò l’azienda, andò ad Epernay per imparare lo champagne.

Aveva già all’attivo centinaia di degorgi fatti a mano, quanti riusciti e quanti rovinosi, e lo muoveva un oggetto dell’infanzia: ‘l butalin d’l vin sfursà. Un tino stretto e lungo di doghe spesse in cui fermentava l’Erbaluce, un metodo Martinotti rudimentale, che dava un bianco frizzante, bevuto in primavera nella scodella.

Non sostare sotto una topia di Erbaluce, questa vite che vuole spazio e architettura per fare bene, che non avrà mai raccolta meccanica e ti rivelerà che è la luce e non il sole a maturare. Così non avrai dubbi quando ordinerai un Arneis per bere un bianco piemontese all’enoteca della tua movida.

Tra Gamalero e Taconotti

smith   Se sei un produttore, penserai che il prezzo incorpora tutto il lavoro necessario, inclusi gli ammortamenti di macchine e strutture. Sarai un sostenitore della teoria classica. Se sei un consumatore, penserai che il prezzo è pari al valore d’uso per te, sarai un marginalista. Se t’interessa dove incrociano questi due prezzi, farai del marketing. E se non ti piace il marketing, beh auguri, domani è un altro giorno, l’equazione non ha soluzioni.

Questo il sunto di mattinata a Tenuta Grillo da Guido Zampaglione, persona che ha studiato e senza calli è agricoltore e produttore di vini naturali tra Gamalero e Taconotti, sul bordo del Monferrato verso l’alessandrino. Colline di pianura il paesaggio, con lontananze. La casa padronale e gli annessi fanno un corpo unico al centro delle vigne. La cosa entusiasma Guido come buona logistica agricola.

Non è come in Irpinia, dove i campi stanno sparsi, ore a piedi col pezzo di ricambio per il trattore. Se il pezzo c’era. Questo prima dei telefonini. Ma anche dopo, non sempre c’era chi ti salvava.

Da Guido infatti puoi comprare anche il Fiano di suo padre, fatto a 900 metri a Calitri, un vino autoevidente, fiorito al naso pepato in bocca.

Questa mattina di mezza estate piove dopo un mese di secco. Le rose selvatiche. Cos’altro ricorderò tra Gamalero e Taconotti, qualche parola con un agricoltore di buona famiglia meridionale.

Terra parecchia e cantina piccola, così molta uva va alla cantina sociale di Mombaruzzo. Quando per il cortese mi hanno offerto 30 centesimi, mi sono messo a vinificarlo da me. Con lunga macerazione, come i rossi. Questo bianco di emergenza è diventato quello che vendo con più facilità, bianco da invecchiamento. Ho sempre voluto fare vini da invecchiamento. Cerco la densità.

Quando la commissione mi ha rifiutato la doc per il dolcetto, che è molto tipico di questa zona, per disgusto ho declassato anche il merlot a vino da tavola. Il sistema delle doc fa acqua non vino. Diradando di brutto per fare poca uva, se non fossi persona seria e vendessi i miei bollini, starei economicamente molto meglio.

L’uso dei lieviti indigeni è molto importante. Quando mi hanno sfidato alla cieca con due vini, uno con lieviti industriali e uno con lieviti del posto, ci ho sempre azzeccato.

Tra i vini naturali, i miei hanno un prezzo relativamente basso. Sono cari ma non costosi. Certo, una bottiglia di Brezza costa la metà. Ma è un vino più liquido, la bocca mi dice che produce quasi il doppio di me, e allora i conti tornano.

Non tutti i pasti vogliono un vino denso e strutturato, ma qualche volta sì. Mio padre fa il viaggio da Calitri a qui con la Elba, ma sempre penso che dovrebbe farlo almeno con la Skoda.

Dopo Ovada

pinoratto Mm, tempo ideale per andarlo a trovare a Rocca Grimalda, dopo Ovada. Una giornata di fine inverno con pioggia mista a neve che esalta gli aspetti squallidi o sublimi di questo paesaggio chiuso e scosceso.

Pino Ratto fa il dolcetto alla maniera antica, con impliciti ossequi alla legge il centro innova, la periferia conserva. Non dolcetto si chiama, ma vino da tavola, per non dovere sottostare alle burocrazie delle doc. Due cru, Le Olive e Gli Scarsi, il primo più femminile, l’altro più arrogante. Cru è secondo lui parola napoleonica, abbreviazione di cruciale sulle mappe militari.

Gli Scarsi sono vigne che hanno l’età di Pino, settantaquattro, Le Olive trentanove. E’ stato uno dei primi barrichisti d’Italia, negli anni ’60. Credo che quelle che ho visto siano ancora quelle là. Gli Scarsi è stato tre anni in codeste barricche e poi quasi un anno in bottiglia. E’ un dolcetto che può invecchiare molto bene, 30 o 40 anni secondo Ratto.

E’ solo su alle Olive. Due volte sposato, due volte separato. Tre figli, l’ultimo ancora piccolo. E come si sta soli? Mah, bene. Non riesco a litigare con nessuno.

Ex farmacista a Genova, viene qui negli anni ’70 con la prima moglie. Nel ’77 c’è un’alluvione. In un giorno viene giù la pioggia di un anno, scivola via tutto. Ci vuole un mese di ruspe a riaprire la strada. La Regione delibera 250 milioni di aiuti, ma per la firma dovrebbe anticiparne 50 a un politico socialista. Niente anticipo, niente aiuti. Siccome è testardo, e non li ha, li aspetta ancora oggi.

La mancanza di denaro attraversa tutta la sua vita. Molti discorsi di oggi sono contro il denaro, virus anglosassone che contagia l’universo. Quando incontra qualcuno che parla inglese, mette le mani in tasca e parla ovadese. Perché lui è alto monferrino, già diverso dal basso monferrino — l’unico Cristo mancino è del Bissoni in una chiesa di Ovada. Figuriamoci dagli altri italiani. Per non dire degli inglesi. Fu amico di Veronelli e di Mario Soldati, che ne parla nel terzo viaggio. Come spiegazione del male, tra la stupidità e la malafede sceglie la malafede.

Altri discorsi contro: le cantine sociali. Hanno tirato giù il prezzo e la qualità. Nel ’37 la paga oraria di un operaio edile era di 2 lire, un manovale prendeva 80 centesimi e un litro di vino sfuso costava 3 lire e mezzo. Oggi a Rocca Grimalda sono tutti boschi, sono rimasti 30 ettari di terra vitati a dolcetto di Ovada, ma nei supermercati trovi bottiglie a 2,50 per 3000 ettari. Nonostante i Consorzi di Tutela.

Non le rese per ettaro dovrebbe essere il criterio per le doc, ma la resa per pianta, un chilo e due. I suoi nuovi impianti sono alla francese, piante fitte che entrano in concorrenza e producono poco.

Ex ala destra — ma il suo vero ruolo era terzino — ed ex clarinettista, non so bene che conclusione tragga, ma ama ricordare che Leonardo venne chiamato a Milano non come pittore o inventore, ma proprio come clarinettista.

Ci sono 4 cose per cui vale la pena vivere: un quadro, che ti prende e ti trattiene; una donna non bella ma affascinante, che ti piace ascoltare; una musica, che se non stai attento ti inumidisce l’occhio. E una bottiglia di vino buono per la conversazione.

Non si è mai ubriacato in vita sua.

Pranzo mediocre da Pietro a Ovada. Usciti, due amici suoi dicono che ci siamo persi la trippa da Angelo. Sospiriamo entrambi.

Giulia

kanteTrovalo Edi Kante senza navigatore. Anche quando sei in località Prepotto, invano cercherai un cartello scritto. Sarà un trovarlo orale, ma in una giornata come questa, pioggia e vento, senza fortuna puoi aspettare ore prima di vedere persona. Nel frattempo, senti la roccia sotto i piedi e guarda l’Adriatico laggiù.

Sono qua senza precomprensione, su una vecchia soffiata. Sono affidato a un giovane che parla stento. Il Carso è un territorio roccioso che geologicamente prosegue in Slovenia, ci sono targhe slovene sullo spiazzo.

Boris mi fa visitare la cantina. E’ scavata al vivo nella pietra, va giù per quindici metri. Al piano -3 il mosto è messo a fermentare in barricche esauste per un anno. Poi sale a -2 e va in acciaio se bianco, in legno grande se rosso. Il terzo anno sale ancora per l’imbottigliamento. Vuoi per questo lento maturare in ambiente costante, vuoi per le bottiglie dal collo stretto, sono bianchi con lunga evoluzione, nonostante la bassa solforosa.

Sul Carso il suolo utile per l’agricoltura è sottile, le rese in vigna sono naturalmente basse. Gli impianti sono alla francese, piante fitte e poca produzione per pianta. Il clima è ventoso, l’uva sana.

Un po’ alla volta capisco di essere fra i vini naturali, a casa di un carismatico. Ma come capita ai cultori della tuke aristotelica, l’improvvisazione che apre al buon incontro, sperimento un incontro mancato. Il signor Kante neanche mi saluta, sembra il coniglio bianco di Alice nel Paese delle Meraviglie, quando ripete non ho tempo, non ho tempo.

Così
Take up my little Violin –
And further North – remove.

Friuli

Nel tardo pomeriggio sui Colli Orientali da Rodaro. Il capo è fuori, ma c’è Francesco che è, come dire, il luogotenente. Persona affabile, concava quanto Rodaro è convesso. Con Francesco si parla anche d’altro, un libro letto, la crisi nel distretto delle sedie, ordinari racconti di burocrazia — per spostare il vino dalla vecchia cantina alla nuova, a 500 metri di distanza e della stessa proprietà, bisogna farsi vidimare la bolla dal Comune.

Assaggio il Tocai 2007, è l’unico bianco sfuso disponibile. Lo trovo pungente come il Sauvignon dell’anno prima. Per Francesco è osservazione fondata in una parentela tra i due vitigni, in Slovenia il Tocai è chiamato anche Sauvignon Vert, e qui talvolta Sovignonass. Poi mi mette in ordine di scontrosità i rossi autoctoni friulani: prima la Schioppettino, più morbido, poi il Refosco e infine il Pignolo, tannico che basta. E il Terrano? E’ ancora oltre, ma si fa sul Carso.

Alloggio a Cividale. E’ un lunedì sera di pioggia, vento e gelo, i negozi chiusi, sembra bella quando non è sprangata. Trovo rifugio al Pomo d’Oro.

L’indomani c’è Rodaro. Gli dico che seguo un po’ sta cosa dei vini naturali e chiedo cosa pensa di Kante.

Bei vini, ma guarda che ci sono solo quattro tipi di vino: bianco rosso buono e cattivo. Una sera a una degustazione con uno di quei bianchi a lunga macerazione sulle bucce vedo che assaggiano e non parlano, stanno pensosi. Allora apro bocca: scusate, ma se questo vino fosse fatto da Bepi Moìna di Torreano di Cividale invece che dal tal famoso, lo trovereste interessante o profondamente sbagliato? Bevete il vino o il produttore?

Comunque attenzione, coi tempi che corrono chi vuole farsi pagare per bene tutta questa ricerca, rischia di prendersi una di quelle stramassade…

Il 2008 ha avuto delle rese, in particolare per i bianchi, molto più basse dell’anno precedente, tutto va in bottiglia. Il Tocai costa troppo per quel che è. Penso di trovare più qualità prezzo verso il mare.