Ero ospite di John Irving nel pellegrinaggio annuale ai suoi luoghi d’elezione toscani — Suvereto, Follonica, Baratti, Ulisse sull’Argentario — e ho avuto occasione di fare cena da Fulvio Pierangelini con John, Giovanni Ruffa, Alberto Capatti e Nicola Perullo, diciamo l’ala più gnostica e meno militante di Slow Food.
Non vi dirò chi era l’outsider della tavolata, e non voglio annoiare nessuno con quello che si è mangiato, cosa bevuto e quanto costava il viaggio del cuoco. Riporterò solo la considerazione finale di Capatti.
Quando la cucina è a certi livelli per complessità o equilibrio, quella manfrina dell’esperto della tavolata che sceglie pensierosamente i vini dalla carta diventa non solo incongrua ma sciagurata, perché introduce un elemento di aggressiva sostanza che non asseconda e spesso oscura l’eleganza della vivanda. Bisognerebbe che il cuoco stesso inventasse altri meno invasivi beveraggi ad accompagnare il climax e le soste dell’esperienza.
Ed ecco la mia riflessione. Non riuscendo a credere che vogliano incentivare la Coca (imperialista) o l’acqua (ha un effetto depressivo), forse i legislatori del prossimo Codice della Strada avevano in mente il Gambero Rosso come modello di quotidiano comportamento gastronomico. Dovremo dunque rinunciare al bicchiere di vino, ma in cambio avremo sovvenzioni statali per pranzare tutti quanti da Pierangelini.