Questa paletta fu fatta da Mario Bianco 20 anni fa, in quel laboratorio che si intravede sulla destra. Gli ci volle una giornata intera di lavoro metodico e perfezionista. Sorse al di fuori dello scambio monetario: la parte che raccoglie è un pezzo di lamiera di copertura precisamente piegata, l’asta viene da un pezzo di castagno squadrato e rifilato, il manico, così ergonomico, da un altro scarto di legno ritornito, i rivetti che le hanno dato solidità erano chiodi da cerchi di botte recuperati, tagliati e ribattuti a misura. Broche ‘d cerc, in lingua originale, ma l’alfabeto scritto non rende giustizia — la b si liquidizza in una v, la r che segue si arrota, la seconda e si allarga in una quasi-a. Qui in Monferrato l’esplosività del piemontese si combina con un’impostazione consonantica non ubriaca ma alticcia e le vocali si moltiplicano in mezze misure.
Questa paletta mi fa pensare.
Al tempo mai perduto in distrazione e se sia vero che le opere da sole non salvano. Al design di un oggetto fatto per essere molto usato e per durare più di se stessi, che diventa anzi più bello con gli anni. Alla languida catena delle generazioni e alla compresenza di vivi e di morti. Al saper fare che non c’è più e a quanto ne sentiranno la mancanza i tempi che vengono. Alla qualità senza nome. Alla verticale caduta di qualità degli oggetti circostanti a cui ho potuto assistere brevemente vivendo. A come sarebbe possibile che il vino sia cattivo dove si raccoglie la rumenta con tale paletta — il mitico Lato B senza solfiti aggiunti.
Ho il privilegio di usare quotidianamente da sei anni una scopa fatta da Mario come quella accanto alla paletta, perfetta per il marciapiede, che mi fa da aia. Credo di averla portata ai tre quinti del suo ciclo vitale e di avere cambiato nel frattempo almeno sei palette. Ho spazzato con lei due quintali circa di cicche e cartacce senza spingermi a chiedermi come mai non ci fosse qualcuno in divisa a farlo per me, visto quello che pago di immondizia. Una scopa che dà pace.