Da inizio estate erano pronte le bottiglie di Bolle senza Frontiere. Era il secondo anno di produzione, il vino più equilibrato rispetto al primo, più pulito. Non più giusto però, ché il progetto sempre quello era, la sensibilità di Claudio Solìto per i blend avrebbe unito mantonico calabrese, pecorino di Offida, timorasso e proprio chardonnay in un nuovo vino da rifermentare in bottiglia. Vitigni e territori diversi vivono in amicizia nella stessa bottiglia, più profonda della lontananza è l’affinità quando le pratiche agricole di non-dominio assecondano – che nome userò? la terra, la natura, l’ambiente, il campo…
Fusion wining?
Domandando mi sovviene della Storia della Cucina Italiana di Alberto Capatti.
Preferisco sentire parlare Capatti che leggerlo, ha quella scrittura da seminario che era in voga negli anni ’80 e ti lascia vuoto all’arrivo come lo eri alla partenza. Ho letto il libro, tutto!, cercando qualche traccia del Capatti orale, che ha lingua chirurgica. Da un fuoriuscito potevo aspettarmi qualche lume su quei di Bra, invece sono arrivato sfinito a conclusioni più timide di un innamorato di Peynet.
Poiché Capatti non si lascia citare, tanto è liquido, ne faccio io una sintesi brutale: il futuro è un fusion cooking per le pecore e un’Eataly per i pastori, e ciò non detto con cinismo ma con mano atteggiata a benedizione plenaria. Le prime avranno l’utopia dell’ipermercato globale, i secondi andranno al supermercato di alti cibi come si va all’Università, per comprare e sapere.
Preferivo Bukowsky.