Un sociologo francese, Bertrand Badie, scriveva negli anni ’90 di agonia del territorio di fronte alla potenza delle reti. Si può trasferire questo verdetto dal suo sfondo geopolitico alla scena vinicola? Per molti versi sì, basta pensare a come sono diventate determinanti le esportazioni di vino per la salute economica delle aziende. Per altri no: non si esporta proprio un territorio?
Anche nel vino sfuso, un settore di retroguardia, visto che riguarda consumi interni in calo secolare, il territorio è insieme una forza e un attrito per quel po’ di mercato di cui ancora campiamo i miei concorrenti ed io.
Sono al telefono con un produttore della provincia di Asti. Scusa, chi me lo fa fare di comprare una barbera di 15 gradi con sette e mezzo di acidità? I miei clienti hanno l’esofago delicato e non mangiano continuamente salame o bagna caoda. Scusa, ma perché devo fare una barbera d’Alba se faccio il vino a Costigliole? Senti, non è che in tutta la provincia di Asti la barbera sia come la tua. Vuol dire che l’arruffianano. Quest’anno l’ho raccolta tra gli ultimi, e ben, avevo quasi 16 gradi e 8 di acidità. Però la mia tra 10 anni è ancora a posto con 25 mg di solfiti, se ha cinque e mezzo di acidità tra un anno lo trovi un vino molle, etc.
Eppure è un fatto che si beve locale. Vorrei tentare perciò un’interpretazione microbiologica del territorio, che spiega perché hanno un senso i vini naturali.
Si beve territoriale perché c’è una parentela batterica tra il microbiota e lo strato pedologico, tra l’intestino e il terreno, e la città è misteriosamente aperta su questa continuità, vuoi che avvenga per filamenti fungini sotterranei o per correnti microbiche aeree o per resistente memoria storica di cose assenti. Mi portò a simili ragionamenti un articolo di Michael Pollan sul microbiota. L’articolo contiene l’importante concetto di patina fecale, che coprirebbe il mondo che abitiamo. Parmi l’Italia un posto adatto per studiare il fenomeno, qui più che patina sembra una mano di vernice.