Lato B 2021

Il Lato B 2021 potrebbe essere l’ultimo Lato B, dopo quasi un ventennio. Della vendemmia 2022 sono state vendute le uve, quindi nell’inverno 2023-24 non ci sarà alcun Lato B, ma sono anche stato incerto se comprare il 2021 per questo inverno 2022-23. Il 2021 ha infatti un problema, non ha fatto la fermentazione malolattica.

Dopo la fermentazione alcolica, che trasforma gli zuccheri in alcol, normalmente coi primi caldi della primavera avviene un’altra fermentazione, che trasforma l’acido malico in acido lattico. Questo abbassa l’acidità e dà morbidezza, mentre la presenza del malico, che come dice il nome è imparentato col mallo delle noci, fa schioccare la lingua. Mentre la fermentazione alcolica è tumultuosa, quella malolattica è sommessa, ma quando è in corso provoca nel vino un odore di caseificio, nelle parole di Giovanni, che passa poi coi travasi.

Nei bianchi perlopiù si preferisce non avere la seconda fermentazione per non avere un vino molle e trattenerlo nella freschezza, i solfiti servono anche a impedirla e questo spiega il tenore di solfiti più alto nei bianchi, con le conseguenze di malditesta, insonnia etc.

Questo della mancata malolattica non è un problema specifico del Lato B, è comune a molti vini 2021. E’ come se i batteri avessero fatto sciopero (i batteri quando si organizzano in complessità, che riguardino lo strato fertile della terra o il microbiota intestinale, sono un argomento ostico anche per la tecnica moderna, ne abbiamo parlato altrove). Si potrebbero inoculare dei lieviti di laboratorio, ma intanto costano molto, e poi non garantiscono l’esito. Giovanni ha deciso di non fare nulla e lasciare il suo Lato B al proprio destino.

Ho chiesto a Giovanni quale sarebbe questo destino se non lo comprassimo noi. Sarebbe comunque venduto, poiché la qualità è la solita (si tratta anche quest’anno di una barbera da 15°), a qualcuno che probabilmente lo disacidificherebbe col bicarbonato, poi per mascherare la sfumatura violacea che ne deriverebbe, lo taglierebbe con altro per il colore voluto.

Allora abbiamo deciso di occuparcene noi di Vinologo, di starcene anche noi fuori dalla volontà di potenza mentre le tenebre avanzano, e di proporre il Lato B 2021 così com’è.

Feudalesimo organolettico

Ora si sente dire di fine della globalizzazione, più spesso con costernazione che con fiducia. Ne ebbi segni contrastanti a Sessame, non nel paese che scivola giù, ma in località San Giorgio, che ha una geologia più salda.

Quello che in carta chiamiamo Birbet Sec (e che non potremmo, perché il nome appartiene a qualcuno o qualcosa) dalla vendemmia 2021 non è più brachetto in purezza, si torna all’antico, a un taglio. Ci sarà un 15% di dolcetto e nebbiolo (qui è quello di Dronero, non di Langa) per un più di tannino e colore e forse un meno di instabile. Assaggiato, mi parve più adulto, sulla strada che porta a un ruchè.

Mi spiegò Lorenzo che il brachetto ha zuccheri ma pochi polifenoli, ciò nonostante vuole estrazioni brevi a evitare esiti non desiderati. Il taglio gli dà più struttura cioè identità, quella che aveva prima della stagione monovarietale, espressione della globalizzazione vinicola, si torna al feudalesimo organolettico.

Non è un vitigno che esprime un territorio nell’enciclopedia dei vitigni e dei territori, il territorio si guarda dentro alla ricerca dei mezzi autarchici per sopravvivere, e li trova in ciò che già era, prima di diventare Comunicazione. Mi ravviva che nuovi clienti, dopo quelli persi con il virus cinese, arrivino alla cantina per una ricerca di Lorenzo Gamba su Google. E se non conoscono il nome? Qualcuno indaga sulle mappe per la sua vacanza e così mi trova.

Sessame infatti è Settimo Continente, se stai poco bene puoi scegliere tra l’ospedale di Novi Ligure e quello di Verduno, comunque un’ora e mezza di macchina. (Sicuramente questo aumenta la quantità di salute media della zona.) Il capoluogo Acqui è descritto da Lorenzo come città morta di serrande abbassate, dove il turismo termale e l’aperitivo sono pallidi ricordi. Un posto dove ti piacerebbe vivere insomma, mentre Lorenzo spera nella gentrificazione della Valle Bormida, come successe per Alba e succede per il Monferrato.

Al ritorno riscavallo le colline che separano Sessame da Canelli. In cima c’è Cassinasco, adocchio un posto nuovo che sa di vecchia osteria e non si chiama antica. A Cassinasco! Adoro queste imprese perifericissime, mi fermo. Dentro due persone bevono un bianco, è troppo presto per il pranzo, ma riesco a ottenere un panino d’altri tempi (finirlo mi richiederà tutta la concentrazione e il tempo che ci vuole) a un terzo del prezzo che costa, notizia di oggi, il menu minimo di McDonald’s. Mentre esco sento che le due persone che bevono un bianco parlano in inglese.

California Dreaming

Un bianco da Monferrato, lo chiamiamo California Dreaming perché per la sua roverosità eccessiva, i profumi di cocco e vaniglia, ricorda gli chardonnay che andavano di moda in California 20 anni fa.

Erano vini che volevano rappresentare uno stile di vita, più mondo che territorio, e coniugare i bilanci agricoli con un’impronta borgognona, vini fatti per mostpeople. Gli stessi vini farebbero oggi storcere il naso a un Langone, che direbbe sembra di succhiare un comodino.

A noi però la frequentazione di massa dei corsi di degustazione fa scattare un moto di populista nostalgia per la California di un quarto di secolo fa e persino per i suoi vini, oggi così poco politicamente corretti.

Perché California significava allora aziende con un futuro nate in un garage, e oggi cooptate dal complesso militare-industriale. Significava potenziamento della libertà individuale, e oggi il panoptikon del controllo governativo sistematico e universale. Ascensore sociale, e oggi impiegati che vivono in tenda. Clima mite di un’eterna primavera e oggi l’estate infernale di roghi e siccità.

E mentre spariva un posto in cui nascondersi dal sole a picco che toglie l’ombra alle cose, il prezzo dei terreni spinse avventurosi in californie marginali, dove scoprirono più difficili nessi. I loro vini si territorializzarono, e ci lasciarono con un mito geografico in meno e un’ipotesi, che unico spazio di salvezza sia una forma di vita.

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Siamo tutti bordolesi

Anche qui da noi in Piemonte si piantarono varietà bordolesi nei primi passi della globalizzazione, quando andarono di moda i blend un po’ legnosi, o molto. Per non morire di Barbera, dice Claudio Solito.

Oggi che la parola blend provoca una smorfia perché la precomprensione è monovarietale, oggi che il globalista beve autoctono, e la barbera ha preso prezzo via consorzi di tutela, le varietà internazionali fanno pensare a quelle opposizioni un po’ scialbe a cui siamo così abituati.

Ma posso rammentare che prima di essere internazionali i bordolesi sono un territorio e tra i primi sei vini più costosi al mondo cinque sono dei Cabernet Sauvignon in blend col Merlot, e che è bordolese l’archetipo del vino?

E sommessamente suggerire al carnivoro di provare dalla carta di Vinologo il Cabernet Sauvignon 2016 da Langa, col suo passato di barrique, e il Merlot 2017 dal Nizzardo astigiano maturato in acciaio (o al vegetariano di lasciarsi ispirare dalle note erbacee del Cabernet Franc friulano)?

Nell’argilla piemontese non ci sono i sassi della Rive Gauche, siamo un po’ lontani dal mare, l’estate è torrida, ma gli impedirà di concludere che sono più simili a un vino californiano una certa eleganza, che lo farà sentire a casa come una Barbera.

Le territoire agonise. Una microbiologia

Un sociologo francese, Bertrand Badie, scriveva negli anni ’90 di agonia del territorio di fronte alla potenza delle reti. Si può trasferire questo verdetto dal suo sfondo geopolitico alla scena vinicola? Per molti versi sì, basta pensare a come sono diventate determinanti le esportazioni di vino per la salute economica delle aziende. Per altri no: non si esporta proprio un territorio?

Anche nel vino sfuso, un settore di retroguardia, visto che riguarda consumi interni in calo secolare, il territorio è insieme una forza e un attrito per quel po’ di mercato di cui ancora campiamo i miei concorrenti ed io.

Sono al telefono con un produttore della provincia di Asti. Scusa, chi me lo fa fare di comprare una barbera di 15 gradi con sette e mezzo di acidità? I miei clienti hanno l’esofago delicato e non mangiano continuamente salame o bagna caoda. Scusa, ma perché devo fare una barbera d’Alba se faccio il vino a Costigliole? Senti, non è che in tutta la provincia di Asti la barbera sia come la tua. Vuol dire che l’arruffianano. Quest’anno l’ho raccolta tra gli ultimi, e ben, avevo quasi 16 gradi e 8 di acidità. Però la mia tra 10 anni è ancora a posto con 25 mg di solfiti, se ha cinque e mezzo di acidità tra un anno lo trovi un vino molle, etc.

Eppure è un fatto che si beve locale. Vorrei tentare perciò un’interpretazione microbiologica del territorio, che spiega perché hanno un senso i vini naturali.

Si beve territoriale perché c’è una parentela batterica tra il microbiota e lo strato pedologico, tra l’intestino e il terreno, e la città è misteriosamente aperta su questa continuità, vuoi che avvenga per filamenti fungini sotterranei o per correnti microbiche aeree o per resistente memoria storica di cose assenti. Mi portò a simili ragionamenti un articolo di Michael Pollan sul microbiota. L’articolo contiene l’importante concetto di patina fecale, che coprirebbe il mondo che abitiamo. Parmi l’Italia un posto adatto per studiare il fenomeno, qui più che patina sembra una mano di vernice.

Baguette

Quest’anno non ho potuto fare un breve soggiorno nella Francia profonda e mi mancano due cose, non aver mangiato una baguette e non aver bevuto una bottiglia di Viré Clessé Cuvée Pochon. Non che si trovino in Francia buone baguette ad ogni angolo di strada, ma qui sì.

La baguette nasce a Parigi dopo la Prima Guerra Mondiale come un pane di lusso e diventa velocemente popolare, anche se ci mette cinquant’anni a penetrare nella Francia periferica. Combinava una serie di innovazioni — molitura efficiente, lievito commerciale, impastatrice meccanica, forno con iniettore di vapore, forma lunga e fermentazione diretta — che facevano risparmiare gran tempo. Baguette vuol dire che in ogni morso c’è del croccante e del tenero insieme, crosta che sa di noci e mollica che sa di burro. Fa male, si sa, ma quando è buona, vuol dire che la farina si è trascesa nell’idea di pane.

Il pane migliora magicamente una quantità di cibi, formaggi freschi e stagionati, salumi, zuppe, carni e sughi. La baguette è il pane dell’alta cucina francese, ma accompagna bene quasi ogni sorta di cibo saporito dell’emisfero occidentale e anche orientale, dal Giappone al Vietnam. E’ anche grande amica del vino.

Ma possiamo uscire un momento dalla dimensione comunicativa e vedere i consumi reali di pane e vino? Potremo vedere la relazione inversa tra quanto se ne parla e quanto se ne mangia e se ne beve. Ci faremo un’idea di lungo periodo di quanto usciamo da un solco secolare.

Le fonti sul pane sono da rilevazioni Coldiretti. Quelle più recenti sul vino si possono trovare qui. Quelle relative al 1800 mi vengono da comunicazione orale di un cliente storico dell’agricoltura che ha tenuto alla Fondazione Einaudi una conferenza su Einaudi e la Vigna. Sono dati ricavati da studi del nostro primo presidente, quello che a un pranzo ufficiale era capace di dire a un suo vicino — Tutta la pera è troppa, non farebbe a metà con me?

Consumi di pane pro capite in grammi giornalieri

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Consumi di vino pro capite in litri giornalieri

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Verdicchio

Sostengo il verdicchio come bianco amico del cibo, col pesce certo (ma chi si fida del pesce se non è molto sopra le tue possibilità?), ma con le uova e i primi conditi con verdure, dice Massobrio, persino un Pad Thai, dico io.

Sarà per la sinergia acido-sapida, come direbbe un diplomato? Ma sì, certo, fiori bianchi, freschezza e salino in bocca — dissetante e corroborante; va bevuto a 7-9°.

Avevo una guida territoriale, Indigeno Marchigiano, ma amico, non sono più tempi di denaro speso in esplorazioni, devo fare ricerca con quello che ho, fichi secchi.

Un barberista astigiano mi disse di aver bevuto un verdicchio straordinario ad un incontro con importatore americano comune ad aziende diverse. Seppi poi da chi lo fa, incontrato qui in città in uno dei due viaggi annuali con cui rifornisce i marchigiani venuti a Torino nei ruggenti ’60 a lavorare in Fiat, che si tratta di una modesta massa di Verdicchio 2010 che da allora se ne è stato a temperatura costante in vasca d’acciaio nel buio di cantina, solo con se stesso, esposto al puro scorrere del tempo, e che Berta, altro importato, ne ha prenotate 120 bottiglie senza sapere il prezzo.

Quello in vendita sfuso da noi, se pur si chiama per nome Verdicchio dei Castelli di Jesi, per disciplinare un po’ meno snob di quelli piemontesi, non è quello lì, certo, ma porta con sé qualcosa di adriatico, una delle due forme di lontananza italiana, sopra e sotto, destra e sinistra.

Risvolti psichici del cambiamento climatico

Si può anche ricordare la trentennale glaciazione dei primi decenni del ‘600, testimoniata da quadri olandesi in cui si pattina invece di camminareavercamp_hendrick_1585_1634_winter_scene_on_a_frozen_canel_LA_County_museum_of_Art_640, si può insomma anche essere trumpiani al proposito, ma è difficile negare un cambiamento climatico. Giovanni imparò a sciare qui, a Calosso, c’era tanta neve in Monferrato quanta a Bardonecchia, e sono impresse nella sua memoria vendemmie sotto la pioggia, con tanto fango da scivolare via lungo i filari.

Diversi disciplinari sono di quegli anni, tutti orientati a garantire un minimo di gradazione alcolica. Ma oggi che il problema sarebbe semmai inverso, come stare sotto un massimo, a che serve un disciplinare? A 16 gradi scatta la tagliola dei vini speciali, l’acqua, anche quella bidistillata è tracciabile, puoi ritrovarti con del vino di grande qualità da 16,50 di alcol e non sapere che fare.

Lo vedo Giovanni, costernato. Sente di fare il figurante in qualcosa che lo supera. L’orgoglio della qualità è difeso dal secondare la natura ma torbidato di inquietudine.

E’ noto infatti che il Lato B ha un suo carattere filosofico che emerge già dopo il secondo bicchiere, ma 15,50 di alcol pongono degli interrogativi sulla sua identità di <vino da pasto>, accampano esigenze sul cibo di affiancamento, alzano il sopracciglio dell’acquirente finale. Tutti, produttore commerciante e cliente, sentiamo che a queste misure c’è qualcosa in ballo.

Dal punto di vista filosofico è la negazione dell’etica aristotelica del giusto mezzo e della moderazione. Da quello psichico, è una ripetizione di quanto porta Freud a scrivere Al di là del Principio di Piacere, la scoperta che gli uomini amano farsi del male da soli. Il Todestrieb non è una circostanza, ma un programma pulsionale. Dal punto di vista teologico equivale all’affermazione che l’inferno non è vuoto.

Quante cose, materiali e immateriali, in un bicchiere di Lato B!

Trattori

Settembre non è un gran mese per andare a rifornirsi di vino, in azienda disturbi e per le strade ci sono troppi trattori. Ingannerò dunque il tempo annotando la personale insoddisfazione per la sparizione del prosciutto di Parma stagionato e del vino invecchiato, più di un anno o due non si trova. Popolo che invecchia e vino recente, la complessità evidentemente va in bottiglia e la bottiglia va all’estero. Se vuoi un po’ di emozione ti tocca invecchiartelo da solo, nella tua cantina, costume non così diffuso nel Belpaese — preferisco chiamarlo così, lo associo a un formaggio e non a quel che vedo.

Ci sarebbe anche chi ne fa una filosofia, come Colombo. Sarà poi vero che il legno giusto per un Pinot Nero sian sei mesi e poi lasciare che evolva in bottiglia? Non ci sarà qui un nesso tra necessità e virtù? Mi viene in mente che da Borgo Maragliano (sì, il perdono figlio del tempo è la forma opaca di perdono riservata ai senza grazia) mi si suggerì di collegare questa mania dei tanti-mesi-sui-lieviti a passati invenduti in Franciacorta, mentre Champagne di rispetto se la cavano con 24.

Andiamo dunque, in prassi se non in teoria, verso un vino-Parker, vino-frutto, secondario, mentre l’economia si fa vitaagramente quartaria. Ma quando leggo che per scrivere bisognerebbe prendere ad esempio quel vigneron intellettivo che già notava Soldati, viene l’ispirazione di uscire da questo vino dialettico e di tornare come approdo a un vino-atto, autistico.

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Se siamo discorso e quindi sistema, cioè niente di nuovo possa accadere senza integrarsi, quale rapporto ha con quanto sopra che da un anno non mi stanchi mai di ascoltare Bill Evans? Dev’essere quell’equilibrio di lirico e cerebrale, quel fare jazz senza note blues, la resistenza al senso di marcia e alla tecnologia e così farti quasi-piangere.

Ubi consistam

Qual è l’ubi consistam mio e di Vinologo? E’ il settore primario, in tempi di post-trionfo terziario e quartario, di agricoltura stritolata da registri elettronici e fatture telematiche, agricoltura senza cellulare, agricoltura che non canta più. Si chiama Giovanni. Giovanni-a-venta-piantéla-lì.

scansione_giovanni_biancoSi pranza alla Cròta ‘d Calòs. Ma vogliamo uscire un po’ dalla retorica dei Patrimoni dell’Unesco? Pubblichiamo allora uno stralcio di conversazione tra Giovanni, Greco e me — chi è Greco dirò un’altra volta. Calosso come paese cadavere, parla Greco.

Una volta a Calosso c’erano due drogherie, tre macellerie, persino due cartolerie, tutte le sere si andava in fondo al paese, si giocava al balun, si scherzava, di domenica ti conveniva lasciare l’auto prima della piazza se no non passavi o dovevi aspettare che la gente si spostasse. Adesso non c’è più un negozio, dei due bar uno ha chiuso e l’altro lo segue tra poco, farà dieci caffè in una settimana, se vai in paese di giorno feriale a jè gnun, non parliamo di sera e gioventù, se vai di domenica in piazza trovi 4 macedoni, di quelli che non pagano neanche l’assicurazione che se ti capita di bocciare con uno di loro sei rovinato, e con la macchina puoi andare fino in chiesa. Ma non davanti, puoi andare fin sui banchi.

Dice Giovanni che al mattino ancora, ma se al pomeriggio inciampi su un tombino e cadi e ti fai male, puoi rimanere lì anche fino al giorno dopo.

Chiedo perché.

Parla Greco. I supermercati, la morte, internet, i telefonini, i giovani con l’orecchino e i pantaloni col cavallo basso, che se mi viene a chiedere di lavorare, lo guardo e dico vai pure, tsei nen purtà.

scarpe_di_giovanniL’ubi consistam mio e di vinologo è agricoltura no foto, perché siamo tutti irochesi, la foto porta via l’anima e così non mi oso, tanto peggio per i social — e invece oggi pubblicherò anche due foto di Giova, l’estremità superiore e quella inferiore, quest’ultima in absentia. 49 è la misura, non importa come siano, quando si trovano della misura, si comprano comunque.

Immaginiamolo dunque che si mette in pari coi lavori, non come fanno tutti passando diverse volte facendo un lavoro solo, ma passando una volta sola e facendo tutti i lavori. Una cosa come il mare, che non si vede la fine mai.

O a una conferenza di Monticelli sull’ultima piaga d’Egitto, la cimice asiatica, quello che tocca fa puzzare, e così il vino.

O alle prese coll’oidio, a ma-atìa. Giova si difende con lo zolfo in polvere, tanto e presto. Non quello soluto in acqua, che non arriva dappertutto, quello che brucia gli occhi, che non è amato ma funziona meglio dei sistemici.

O che distingue l’acqua per i pomodori, che preferiscono scaldata dal sole, da quella per i peperoni, che preferiscono freddissima di pozzo.

O che guarda un bicchiere di Lato B 2016 in controluce e storce il naso perché secondo lui non è cristallino, e io guardo anche e vedo una sostanza impenetrabile da 15,50 di alcol. E penso con calma che troverà dei clienti che ci spenderanno sopra dei soldi con la stessa paura-fiducia con cui io metto la mia mano di taglia media nella sua mano fuori scala.