Pane Pavlov

Ci riproviamo: venerdì e sabato torniamo a smerciare qualche pagnotta di pane. E’ il pane dell’Alvà, una startup canavesana in cui opera Umberto Salussolia, giovane panettiere di cui abbiamo seguito il curriculum sul campo, non in qualche Università del Gusto. Startup non bancabile e quindi i soldi del forno arrivano da nonni e papà, questo già garantisce che è il panettiere a crederci, non l’impiegato dei mutui nè un algoritmo di politica monetaria. Il malinvestimento è più lontano, il pane buono più vicino.

Ma le due parole che voglio spendere qua non riguardano il sostegno all’iniziativa privata, incosciente per definizione di questi tempi, bensì perché NOI siamo coinvolti ancora una volta dal pane, nonostante sia un consumo residuale, nonostante faccia notoriamente male, nonostante storicamente col pane nel migliore dei casi siamo andati in pari.

Nessuno può credere che siamo affascinati dai Nuovi Panettieri affabulatori e social-isti, magari divisi in moderati ed estremisti come la sinistra hegeliana. Riconosciamo in questo apparire nel Mondo Pane un fenomeno che Soldati vedeva già pienamente affermato nel Mondo Vino degli anni ’70: Come accade da tempo ai contadini in Francia, ormai anche in Toscana tutti i contadini sono estetizzanti, letteratoidi, pubblicisti e antiquari. Chi non è sommellier o maestro del gusto alzi la mano. La sala rimase immobile.

Se non è per l’oggi, è per quello che fu? Leggo che la glottologia rimane incerta sulla radice indoeuropea pa, potrebbe farsi risalire all’allattamento materno o al sostegno paterno. In ogni caso sembra risuonarvi più il timbro di una legge che quello di una tecnica, richiedere più un atteggiamento di timore e tremore che un padroneggiare dei mezzi per un fine.

Ricordiamo che Umberto viene da studi teologici e che il fare con la pasta madre deve accettare una qualche eternità, la languida catena delle generazioni di pagnotte. Questo è il prima, il poi è quell’acquolina in bocca quando attraversi l’odore del forno. Tra il prima e il poi è lo spazio dove ti trovi recidivo filosofico pane di Pavlov.

Baguette

Quest’anno non ho potuto fare un breve soggiorno nella Francia profonda e mi mancano due cose, non aver mangiato una baguette e non aver bevuto una bottiglia di Viré Clessé Cuvée Pochon. Non che si trovino in Francia buone baguette ad ogni angolo di strada, ma qui sì.

La baguette nasce a Parigi dopo la Prima Guerra Mondiale come un pane di lusso e diventa velocemente popolare, anche se ci mette cinquant’anni a penetrare nella Francia periferica. Combinava una serie di innovazioni — molitura efficiente, lievito commerciale, impastatrice meccanica, forno con iniettore di vapore, forma lunga e fermentazione diretta — che facevano risparmiare gran tempo. Baguette vuol dire che in ogni morso c’è del croccante e del tenero insieme, crosta che sa di noci e mollica che sa di burro. Fa male, si sa, ma quando è buona, vuol dire che la farina si è trascesa nell’idea di pane.

Il pane migliora magicamente una quantità di cibi, formaggi freschi e stagionati, salumi, zuppe, carni e sughi. La baguette è il pane dell’alta cucina francese, ma accompagna bene quasi ogni sorta di cibo saporito dell’emisfero occidentale e anche orientale, dal Giappone al Vietnam. E’ anche grande amica del vino.

Ma possiamo uscire un momento dalla dimensione comunicativa e vedere i consumi reali di pane e vino? Potremo vedere la relazione inversa tra quanto se ne parla e quanto se ne mangia e se ne beve. Ci faremo un’idea di lungo periodo di quanto usciamo da un solco secolare.

Le fonti sul pane sono da rilevazioni Coldiretti. Quelle più recenti sul vino si possono trovare qui. Quelle relative al 1800 mi vengono da comunicazione orale di un cliente storico dell’agricoltura che ha tenuto alla Fondazione Einaudi una conferenza su Einaudi e la Vigna. Sono dati ricavati da studi del nostro primo presidente, quello che a un pranzo ufficiale era capace di dire a un suo vicino — Tutta la pera è troppa, non farebbe a metà con me?

Consumi di pane pro capite in grammi giornalieri

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Consumi di vino pro capite in litri giornalieri

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Farina d’ossa

Come da qualche anno, in vacanza poco vino. Una mezza bottiglia di Mercurey 1er Cru del 2005, avanzata da chissà quanto nella casa in prestito, su un involtino primavera vegetariano, esperienza eterea di ciò che resta quando i muscoli sono un ricordo, eppure qualcosa resta e consuona. Un rosé, sottratto alla scorta di casa, e il giorno dopo, quando cerco di rimpiazzarlo, il visibilio di uno scaffale di un Carrefour di provincia che espone non esagero una quarantina di rosé, mentre le cose qui da noi sono così stupidamente nette, e le mezze misure una nicchia.

Visitato il monumento simbolo della Provincia di Torino, un forte ciclopico in Val Chisone che non ha mai dato prova di sé come sbarramento militare, in compenso ha ben funzionato come galera per diverse categorie di oppositori politici. Se non è voluto, è ben trovato. Invitato alla caffetteria del forte, di nome dei Forsat, declinai.

Passato molte ore sull’amata letteratura concentrazionaria, quest’anno Salamov. Poi il Limonov di Carrère. Da Salamov una citazione su un argomento che sempre mi occupa, il pane, e che piacerebbe a Federico del Laboratorio di Resistenza Dolciaria di Alba, così pasticcere così scettico sulle farine integrali. Dedicata al panettiere di Valdibella agricoltori.bio.

Con quei camion veniva trasportato giorno e notte, lungo la rotabile di mille verste, il frumento americano ricevuto in lend-lease dentro certi bei sacchi di tela con l’aquila americana. Con la farina si cuocevano delle razioni di pane gonfie e singolarmenrte insipide. Questo pane aveva una qualità straordinaria: tutti coloro che ne mangiavano smettevano di andare al gabinetto: una volta ogni cinque giorni, lo stomaco eiettava qualcosa, che sarebbe stato difficile definire deiezione. Stomaco e intestino assimilavano quel magnifico pane di farina bianca mescolata con mais, farina d’ossa e qualcos’altro – forse semplice speranza umana – e lo assimilavano completamente, senza residui; sarebbe ora di contare tutti coloro che sono stati salvati proprio da quel frumento d’oltremare.

Valdibella agricoltori.bio

Dal 3 giugno 2016 è aperto a Torino in via Genè 5 un punto vendita bio a filiera corta, dove fare una spesa bio non svuota il portafoglio. Si chiama Valdibella agricoltori.bio . In primo piano sta il fresco (frutta e ortaggi) e lo sfuso (legumi, cereali, frutta secca e altre materie prime). Vi si fa anche del pane con una forte personalità e un po’ di cucina da campo.

Il vino c’è, ma in secondo piano. Vinologo è tra i soci fondatori dell’impresa. Perché?

C’è con la Cooperativa Agricola Valdibella una consuetudine ormai decennale, diventata amicizia. Quando incontro le persone della cooperativa siciliana, sempre rimango colpito dalla pazienza, dall’assenza di disperazione, dalla fiducia interna che le cose buone vanno un passo alla volta. Ne esco un po’ guarito, come la donna che Gli toccò la veste in mezzo alla folla.

C’è l’apripista, il Marché Bio des Tanneurs a Bruxelles, visitato due volte, trovato un posto molto vivo, nel segno della qualità senza nome. Valdibella agricoltori.bio è su quelle stesse orme.

C’è il progetto, che è un progetto di mercato – evitare il modello convenzionale del bio, dominato dalla logistica, che mette in tensione il consumatore e il produttore, offrire un bio popolare – ma anche uno stile di vita: stare essenziali, ricordare che le piccole cose in cui ci perdiamo sono su uno sfondo più grande di noi.

Apprendista panettiere a Namur

Perché siamo interessati all’esperienza di Umberto Salussolia, apprendista panettiere, può non essere evidente al momento, ma diventarlo nel tempo. Questa è la sua relazione di un breve soggiorno di formazione a Namur presso la Boulangerie Legrand.

artisan_ambacht_350Alla tavola di casa Legrand, Angela sfoderò uno dei sorrisi migliori del repertorio e mi disse “Sai, è questione di trovare l’equilibrio. Prendi me e Dominique. Io sono il saper dire del suo saper fare”. Raramente mi sono trovato così d’accordo con qualcuno.

Trovo che l’arte della panificazione sia un esempio perfetto della ricerca dell’equilibrio. Bisogna unire sapientemente gli ingredienti, aggiungere il lievito, lasciare che il sale metta un freno all’esuberanza della pasta e saper aspettare.

Ma nella panificazione così come nella vita la semplicità non è semplice, l’essenzialità è un risultato. Come Michelangelo liberò la Pietà dal marmo in eccesso, così Dominique ha liberato il Pane da quello che al pane non serve per essere buono e specialmente sano.la_colazione

Il pane dei Legrand, frutto dell’esperienza di sei generazioni che imparano dai tentativi dei padri, punta a rieducare il palato ai sapori originali di cereali, il più possibile locali e rigorosamente biologici, uniti a tecniche di lievitazione che richiedono almeno 24 ore, così da dare il tempo al lievito di demolire la gran parte degli zuccheri e far decadere la tossicità della farina. Amare il prodotto finale richiede qualche giorno, abituati come siamo a un pane pieno d’aria, di additivi, di correttori di acidità, di zuccheri aggiunti e di farina bianca (mettiamoci il cuore in pace: il pane bianco non può essere pane sano).

Non sarà l’aspetto del pane, che pure ha le sue ragioni e il suo fascino, a farvi rimpiangere gli sforzi della Boulangerie Legrand una volta che vi sarete allontanati da Namur. Se l’occhio non è appagato da una mollica lucente o molto alveolata, dopo qualche assaggio si imparerà a distinguere il farro dal frumento dalla segale, in una riscoperta del sapore di ciò che mangiamo che ha rivoluzionato il mio rapporto con il pane.

Per Jean Cardonnel, teologo domenicano, quando gli uomini condividono il pane condividono la loro amicizia. Credo che sia questa l’essenza del lavoro di Angela e Dominique: mostrare la stretta connessione tra ciò che sono, ciò che fanno e ciò in cui credono, dando vita a un prodotto che ha la sua principale ragione di esistere nel fare bene agli altri.

Il resto, l’eleganza del gesto creativo dell’artigiano esperto, che dall’ammasso vivo della pasta forma ciò che andrà a cuocere tra getti di vapore e nuvole di farina, non lo si può raccontare ma solo balbettare.

Grazie a Dominique e Angela ho capito come riannodare lo sfilacciato rapporto tra l’uomo occidentale e il pane: ricominciare dal buono che fa bene puntando al bello.

Facile? No. Ma c’è speranza.

Pane Graal

Negli ultimi mesi mi sono molto occupato di pane. Ho visitato diversi panettieri bio, praticato di persona i misteri della pasta madre, mangiato molto pane, come non facevo da quando accertai che stavo meglio senza.

La sintesi di questa indagine è che bio-ma-buono non è una realtà ordinaria. C’è il pane sano e c’è il pane buono (quando c’è), ma si frequentano poco.

friantbread_652La pagnotta ancestrale è di grano tenero, una crosta brunita e croccante che trattiene una mollica alveolata e lucente, ma la selezione di cloni produttivi e del super-glutine l’ha resa meno simile a un nutriente che a un veleno.

C’è una via di mezzo, più o meno dichiarata, farine speciali con una percentuale di grano tenero, per non rinunciare alla leggerezza della lievitazione, ma la velenosità è più attutita che eliminata. Quanto pane di farro dovrebbe chiamarsi pane CON farro!

E c’è la via rigorosa, solo grani antichi integrali con poco glutine, una pagnotta più bassa con crosta spesso contestabile. Trovarci un po’ di leggerezza sembra andare in cerca del graal. Bisogna rinunciarci? E’ questo il nostro pane quotidiano prossimo venturo?

O pregheremo per una metonimia, alludendo nel pane a un generico nutrimento? E’ più di un dubbio, pensando che passammo dal chilo di pane quotidiano della Regola benedettina ai 60 grammi di oggidì. Pane messo peggio del vino! che non si consola dicendo ne mangio meno ma meglio.

Regole

Per chiamarsi fuori dallo stradone del pensiero unico che nutre il pianeta tra la capitale morale e Serralunga, dove non solo trovano cattedra le contraddizioni di Carlin Petrini, ma un umorismo non sai se involontario o con la faccia come il bronzo arriva a fare dell’attuale direttore della Bugiarda il Capitano dell’Anticonformismo, si potrebbe imboccare un sentierino che paia rinfrescante e scoprire magari che c’è un selciato romano.

Cosa avrebbe risposto San Benedetto alla domanda moderna — dottore, cosa devo mangiare per dimagrire? La regola XXXIX stabilisce un regime semivegetariano — vietate le carni degli animali che si appoggiano su quattro zampe — centrato sul pane, una libbra al giorno distribuito su due pasti o limitato a uno solo nei periodi di digiuno. Cosa fosse una libbra è stato nei secoli molto controverso, dopo la distruzione delle misure originali col sacco saraceno di Montecassino alla fine del IX secolo. Possiamo pensare che fosse un po’ meno di un chilo. Accompagnavano il pane due vivande cotte, legumi ed erbe. Le crudità, primizie di ortaggi e frutta, erano permesse ma come un di più dello stretto necessario, non erano benedette e ogni monaco se le preparava da sé.

Vinum ad Monachos non pertinet, tuttavia, quia nostris temporibus id Monachis persuaderi non potest, nella regola XL al vino si consente. Oh pragmatica modernità di San Benedetto! Chiaroveggente accoglienza di strutture antropologiche dell’alimentazione nella temperanza cristiana!

Vino quotidiano nella misura di un’hemina per monaco. Per secoli si è domandato che misura fosse l’hemina: l’equivalente di una libbra? Dieci, dodici o sedici once? E quanto era un’oncia? La più diffusa consuetudine prevedeva due tazze a pranzo allungate con l’acqua, e una dopo cena arricchita con miele e spezie. Il chinato prima di Compieta! Péntiti, idolatra della legalità, e contempla cosa eressero e quanto dissodarono monaci lavoratori con tasso alcolico superiore ai limiti dei test. Certo, non te ne farai un’idea recandoti a Cluny, o a Cîteaux, dove i tuoi progenitori giacobini non hanno lasciato pietra su pietra.

Grani antichi

Non mi piace mangiare troppo proteico e se proteico è appropriato per bere del vino, rinuncio al vino. Per questo non vado a mangiare qui  molto spesso, anzi quasi mai.

Ho messo più di un piede dans le trip vegan, sans gluten blablabla, ma non ho ancora ben capito cosa sia per me kosher. Sono i lieviti a farmi male o i veleni della chimica assorbiti dal grano ad uccidermi lentamente? Cosa è meglio evitare — il superglutine del grano nanizzato, o il glutine tout court?

Un aspetto consolante delle moderne intolleranze alimentari è che non deleghi, cucini tu. Così incontri i grani antichi. Piante più alte rispetto ai fenotipi selezionati per la grande industria, più soggette al vento ma meno alle infestanti, con rese decisamente più basse, il frutto si conserva meglio, i semi non sono sotto schiavitù da brevetto.

In rete c’è più di quel che basta sull’argomento. Metterò qui due rimandi, a un produttore e a un artigiano, conosciuto un anno e mezzo fa.

Consorzio

Cena con Santo e Massimiliano Solano da Consorzio. Pietro, dello staff, mi dice per prima cosa che assieme al libro di Soldati devo vendere anche quello del priore di Bose, perché dice cose sul cibo e la convivialità. A un altro tavolo mangia Mauro Vergano. Da Consorzio si beve Triple A e dintorni. Posto che consiglio a pranzo.

Massimiliano è a Torino per il matrimonio del figlio del cugino Santo. Massimiliano viene a Torino con un ritmo decennale, quando c’è un matrimonio.

E’ una sera calda. Che tempo laggiù invece? Caldo ma di sera fresco. No, non c’è scirocco. Quando è scirocco tutto si ferma. Mio padre diceva che scirocco va di tre in tre, se dura il quarto giorno arriva fino al sesto. E’ vero? Non so, non ho mai contato.

Guardiamo il menù. Massimiliano è perplesso sull’antipasto di carne cruda. Non si usa da noi. Neanche tanto la carne. E le proteine? Dai cereali, dai legumi. Ne hanno per il 15%, la carne infine per il 23, non è così indispensabile. Tante verdure, da noi.

Massimiliano prende l’antipasto di carne cruda. Gli altri le acciughe, impanate e col burro. Beviamo un prosecco.

Parla del pane. Se penso alla fatica che c’era dietro una pagnotta fino a trent’anni fa, alla quantità di lavoro, rimango stupefatto. Quando ero bambino non girava denaro. Il grano duro si scambiava con la frutta, si pagava il barbiere con una mancia di grano e quello tagliava i capelli a tutta la famiglia per tutto l’anno.

Cambiamo vino, Pietro propone un Tocai. Sa di riduzione, Massimiliano blandamente non approva. Non è frequentatore di fiere di vini naturali, non lo entusiasmano i difetti dei vini naturali.

Gli chiedo della crisi. Le cantine più grosse patiscono investimenti fatti su flussi di cassa smagriti, ma non è la crisi che lo interessa, di più il lungo periodo. Tra Trapani e Palermo c’è il distretto con la più alta produzione di uva, ma solo il 10% vinifica in proprio. Le cantine sociali hanno prima sollevato l’agricoltore dalla schiavitù del grande commerciante, ma hanno finito per deprimere prezzi e qualità. Il catarratto all’ingrosso vale 20 centesimi al chilo, 50 il nero d’Avola. Conti che non tornano.

Esprimo perplessità sui prezzi del vino. Per Massimiliano il congegno che tradizionalmente fa quadrare i conti in campagna si chiama sacrificio. Il contadino era parsimonioso, se oggi raccoglieva 80, sempre 30 spendeva, e se raccoglieva 20, lo faceva bastare. Se togli il sacrificio, quello che ottieni è una lunga serie di paradossi.

Il farmacista ha una bella tenuta, con la casa al centro — un’eccezione in Sicilia –, attrezzata e in ordine. Un fattore se ne occupa, lui vive della professione. La tenuta costa più di quanto rende. Il farmacista propone al fattore di prendersi la tenuta, salva la proprietà, con le attrezzature e la casa e di sbrigarsela da sé. Il fattore rifiuta.

Massimiliano pensa di assistere a una lunga transizione. Sono vent’anni che due tre volte l’anno mi propongono di partecipare a un convegno. Ha sempre lo stesso titolo, Agricoltura: che fare? in cui un medico o un avvocato da lontano danno risposte. Ma la soluzione deve venire da dentro il mondo agricolo, da ciascun contadino. E prima di tutto ristabilire la continuità delle generazioni. Perché se fai studiare tuo figlio per un futuro in città, mancherà anche a te la centratura per stare in campagna. E se non sarà la famiglia di nuovo a prendere in mano la terra, i conti non torneranno.

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Per Geminello Alvi i profitti agricoli nel 2004 sommavano il 5% dei profitti totali ed erano il 2% nel ’92. Nel discorso inaugurale all’Accademia dei Georgofili del 1957 Luigi Einaudi auspicava la drastica decrescita del lavoro agricolo: “Par certo che il dedicare il 40 per cento della popolazione lavoratrice alla coltivazione della terra sia un manifesto spreco della più preziosa fra le ricchezze naturali: l’intelligenza e il lavoro dell’uomo.”

Misura il tempo trascorso non in anni ma in ere antropologiche un altro grafico di Alvi. Quali sono i settori in cui crescono gli occupati tra il ’90 e il 2004?

  • Ristoranti
  • Domestici
  • Sanità
  • Svaghi
  • Altre attività professionali e imprenditoriali”E quell’aggettivo altre, ma di che senso preciso, nell’imprecisione, si colora, gonfio com’è di mestieri avvocatizi o pranoterapeutici.”

Pane e vino

manca_2C’è quello che Triple A è un anarchico tre volte. E chi più anarchico del contadino? – si scalda Angelo FerrioSe ha voglia va a lavorare alle cinque, e magari alle 11 gli va di smettere. Anche io son triple A, anche io biodinamico — perché come contadino non dò certi prodotti in vigna perché non mi va di respirarli io. E l’erba cresce.

Sì, tutti biodinamici adesso. Scrolla le spalle Sandro Barosi, mentre mi passa davanti. Poi si volta e alza il dito: Ma provino a farsi cer-ti-fi-ca-re biologici, che mazzo ti devi fare… Non è una gran giornata: è appena passato Francesco Batman Battuello a sfrucugliarlo che per potersi dire biodinamici sul serio non ci deve essere cemento in cantina.

Grande è la confusione sotto il cielo dei vini genuini, e lunga la scala: c’è sempre un vino più genuino del tuo.

Per vederne un po’ insieme sono stato ad Asti a Vinissage, esposizione degli irregolari del vino. Ci sono andato per conoscere Gianfranco Manca, da Nurri in Sardegna. E’ da un po’ che sto dietro al suo sfuso: l’altr’anno c’era di mezzo il mare – attraversarlo non fa bene al vino – quest’anno il mare era superato, ma vino sfuso non ce n’è più, bisogna aspettare il prossimo anno. Quando? Eh non si sa, novembre o febbraio, non si può dire in anticipo quando è pronto.

Di Gianfranco Manca mi era piaciuta una notizia che mi aveva dato Nadia Verrua: da lui si mangia un pane fatto con una pasta madre che si rinnova ininterrottamente da trecento anni. Tanto che si è messa l’Università a studiarlo.

Gianfranco Manca dissipa: ogni anno è un altro vino. L’altr’anno potevi comprare uno Skistos, cannonau e muristellu, quest’anno compri un Perdacoddura, cannonau da 15 gradi e rotti, oppure un Piccadè, monica e carignano di 12 gradi. Volevo dimostrare che si può fare un vino naturale senza solfiti aggiunti anche con una gradazione modesta. Manca prima di fare il vino considera cosa ha da dire.

Eppure è stato un incontro deludente, umanamente dico. Sarà che il vigneron va incontrato sul posto, che lontano dal posto perde il carisma, che come il vino attraversare il mare non gli fa bene.

Dev’essere per questo che incontrare Brezza è sempre un conforto, perché Brezza non lo trovi ad Asti, devi andare sul posto. E sul posto trovi il vigneron dolce e saldo che cercavi. Mi avevano chiesto di andare anch’io a Vinissage, ma non ho mai il tempo — con trenta ettari di campagna sono al limite delle mie forze. A Joly una volta gli ho stretto la mano, ma non ho sentito calli. E’ vero che i lavori li puoi far fare ad altri, ma se sono biodinamico mi piace essere io a decidere di cosa hanno bisogno le piante, è vero?