In scala Scoville

Cenai in albergo. Constatai incredulo che abbassavo la media anagrafica della sala. L’indomani visitai una spiaggia invernale e Grottammare di sopra, uno dei borghi più belli d’Italia, da dove meditai con raccapriccio un lungo scorcio di litorale adriatico compatto di fatiscenza. Mi misi in viaggio per Scerne di Pineto. Cercavo il piccante.

Girai dopo l’ipermercato, Paolo Rossi mi aspettava in una Campagnola. Non c’era molta strada da fare, l’ultimo portone dopo i capannoni dava sull’uliveto e la collina. Una costruzione stretta e lunga fa da ricovero attrezzi, punto vendita e casa — labili distinzioni dove vita e agricoltura sono pentola e coperchio. Paolo Rossi potava.

E’ Paolo Rossi dell’azienda agricola Lu Cavalire biodinamico olivicultore e coltivatore di peperoncini, molto critico verso le pratiche agricole convenzionali e la nuova farmacia biologica. Il 2016 è stato un anno disastroso per l’olio bio, la mosca dappertutto. Dalle sue parti ha resistito meglio l’oliva tortiglione, piccola e rustica, che dà un olio amaro e piccante. Si chiama così perché il fusto dell’albero cresce come un cavatappi, in una relazione ostinata con la luce. Esorta a non fidarsi dell’olio che non sai, l’olivo assorbe i veleni e i vincoli dell’economia fiscale non aiutano il rispetto dei tempi di carenza. La sua produzione 2017 è già tutta prenotata e prevede che il prezzo-sorgente salga a 20 € al litro in pochi anni.

Coltiva una ventina di varietà di peperoncino, una locale, le altre da diverse provenienze tropicali. E’ territoriale ciò? Sostiene di sì, peperoncino triturato non manca mai nella cucina del luogo, lo posso confermare. Ma credo che ci sia un fascino nella forma e nei colori di questi frutti rischiosi, che possono esaltare un cibo e anche un vino o guastare tutto, che richiedono autocontrollo per esprimersi come spezia, allusioni gustative della capsicina e non mera scala quantitativa. Gli insetti impollinatori hanno creato degli incroci e lui sta selezionando i semi per avere le sue proprie varietà.

E’ tutto fatto con rigore, gli essiccati sono interi così puoi triturare tu stesso e sapere cosa ci metti dentro, quelli sottolio sono tagliati a mano, l’Uje Sande – peperoncini a macerare nell’olio un tot di settimane, niente <aromi naturali>, anzi mi fa passare per sempre la voglia di mangiare qualcosa aromatizzato al tartufo.

Chiedo se si potrebbe fare del miele di peperoncino. Ci pensa un attimo. Ci vorrebbero cinque ettari coltivati a peperoncino, una superficie corrispondente al fabbisogno di Italia e Svizzera messe insieme, a parte questo, perché no?

Valdibella agricoltori.bio

Dal 3 giugno 2016 è aperto a Torino in via Genè 5 un punto vendita bio a filiera corta, dove fare una spesa bio non svuota il portafoglio. Si chiama Valdibella agricoltori.bio . In primo piano sta il fresco (frutta e ortaggi) e lo sfuso (legumi, cereali, frutta secca e altre materie prime). Vi si fa anche del pane con una forte personalità e un po’ di cucina da campo.

Il vino c’è, ma in secondo piano. Vinologo è tra i soci fondatori dell’impresa. Perché?

C’è con la Cooperativa Agricola Valdibella una consuetudine ormai decennale, diventata amicizia. Quando incontro le persone della cooperativa siciliana, sempre rimango colpito dalla pazienza, dall’assenza di disperazione, dalla fiducia interna che le cose buone vanno un passo alla volta. Ne esco un po’ guarito, come la donna che Gli toccò la veste in mezzo alla folla.

C’è l’apripista, il Marché Bio des Tanneurs a Bruxelles, visitato due volte, trovato un posto molto vivo, nel segno della qualità senza nome. Valdibella agricoltori.bio è su quelle stesse orme.

C’è il progetto, che è un progetto di mercato – evitare il modello convenzionale del bio, dominato dalla logistica, che mette in tensione il consumatore e il produttore, offrire un bio popolare – ma anche uno stile di vita: stare essenziali, ricordare che le piccole cose in cui ci perdiamo sono su uno sfondo più grande di noi.

Nuotatine

Commentava un pasticcere di Alba osterie opportuniste a La Morra e Beverly Hills in Barolo centro. Gente on the move by plane, gente del vino mondo, manderanno a spasso chi vendere non sa ventimila bottiglie.

Prendiamo G*, non eminente rappresentante del vino qui nei dintorni di Alba. G* abita l’epoca per la donna: quando essa ascolta che G* non fa vacanza da quindici anni e il suo lungo orario giornaliero, fa ciao con la manina e celibe lo tronca. Neanche un corso di tango basterebbe, finché non fosse pubblico impiegato. A far magone non è la roba senza discendenza, ma il senso a sera della fatica.

Prendiamo F* della Provincia Granda, che ti elenca le colture che non vale la pena, viti cereali frutta, sempre prezzi sotto i costi. F* s’illumina per l’ulivo. Non dà molto da fare – potare, atomizzare qualcosa per la mosca, raccogliere e portare a Vialfrè – e hai un prodotto cercato anche a 30 euri, dice lui a me scettico. Questa gran domanda di olio piemontese mi sfuggiva. F* s’infervora, le analisi di acidità e polifenoli dicono l’olio piemontese immancabilmente il migliore.

Prendiamo C* del nizzardo, che ti racconta del colpo al cuore. Lo hanno tenuto di qua con delle molle nelle arterie, ma gli hanno messo in discussione lo stile di vita. Mi date voi la pensione? Mi date voi lo stipendio? E’ la vigna che mi stipendia e quest’anno ho già fatto troppo a letto. Allora il camice bianco mi dice se la mette così, però mi raccomando, lavori un paio d’ore e poi vada a farsi una nuotatina.

Taggiasche

Un giorno a Pieve di Teco, a vedere se è ancora lì quello che vedeva Soldati trentacinque anni fa. No, non c’è più. Il recupero del teatro Salvini, un teatro da qualche decina di posti — piccolo! sognamo di piccolezze le economie e gli spettacoli — non fa argine a un’invadente malinconia. Nei portici profondi, nei fondaci bui c’è meno pace che rassegnazione. Non più oggetti utili, ma le merci della costa, del medesimo. Resiste l’Albergo dell’Angelo, dormici, il dio dell’altrove gradirà l’offerta.

Si scenda lungo l’Arroscia verso il mare e a Borghetto verso Gazzo si salga, si salga. Alla Baita di Gazzo, per una colazione dolce e salata. Dolce di agrumi di Mentone in marmellate di breve cottura, salata di acciughe di fine inverno e olive taggiasche.

gazzo_01Il paese fa 48 abitanti, sazi di anni. Il monte scende ripido, la poca gioventù aiuta il Marco a tenere gli ulivi, a ripristinare i muretti, a disseppelire dai rovi piante ancora vegete. Le vecchie danno una mano alla trasformazione, così che le olive denocciolate e in salamoia, il patè di taggiasche, le confetture, le composte sono d’autore collettivo.

Cifra dell’olio di taggiasca, l’adattamento dell’oliva frantoio in Liguria, è la delicatezza, l’eleganza. Marco coltiva più di tremila piante, molte secolari, spesso in comodato d’uso gratuito, per tenere in vita un pezzo di monte che non si vuol vendere.

La Baita è segnalata sulla Guida delle Osterie d’Italia, aperta nel fine settimana. Dice Marco, non si potrebbe mangiar male, abbiamo una materia prima di eccezione. E come vini? Non solo, ma molto territorio. Anche Vio? Ehi. Quest’anno aveva un vermentino fuori classe.

Avessi due soldi, compreresti casa proprio a Gazzo.

estezargues_01Invece no. Ti metterai in strada, come oralmente consigliato, fino ad Estezargues, dove 320 giorni all’anno sono di sole. E’ vicino a Pont du Gard, il terzo sito più visitato di Francia. A Pont du Gard nella locanda di Caderousse si compie un omicidio nel Conte di Montecristo. Ma tu dormirai qui, dove avrai un’esperienza di savoir vivre al giusto prezzo, compresa una colazione sontuosa in una torre del millecento.

Olio novo

lolio_01 Roberto Nistri deve aver letto quello che diceva Zamparelli. Gli ha provocato un moto di revanscismo, che si è tradotto in queste parole.

Non c’è una sola cosa che può unire i toscani come l’amore per l’olio, soprattutto quello novo. Stasera stanco dopo una ennesima giornata passata a parlare di cenci (tanto per rimarcare la toscanità) stavo tornando a casa con quella scoglionaggine tipica del periodo pre-natalizio denso di lavoro e avaro di luce e sole. Mi sono fermato dal fido ortolano (fruttivendolo per gli stranieri) Alessio per comprare due cazzate vegetariane per una cena leggera, preludio a una sana e lunga dormita ristoratrice. Sul banco ecco apparire delle meravigliose fagiole fresche già bell’e sgranate! Roba da urlo! mi dice Alessio. He son l’ultime ti fo un prezzaccio!

La stanchezza e l’apatia spariscono di colpo. Prendo un tegame di terracotta, acqua, due foglie di salvia, uno spicchio d’aglio, un pomodorino invernale dal sottotetto, un C di olio, accendo il gas e metto i fagioli schiaccini (così li chiamo per la loro forma caratteristica) a cuocere piano piano. E’ il momento di tirare fuori la riserva di pansecco — toscano, senza sale, con la midolla (mollica) piena di grandi buchi (pane bucato e formaggio serrato) dal sapore così understatement –, cercare di tagliarne un paio di fette senza sbriciolarlo troppo, metterle in una scodella, buttarci sopra un paio di ramaioli di broda di fagioli per farle rinvenire, una bella dose di schiaccini, affettare un po’ di cipolla rossa, aggiustare di sale, aggiungere una bella macinata di pepe nero e… tirare fuori il Re… l’OLIO NOVO!

Amico mio ti confesso che mi sono un po’ vergognato perché ne ho versato veramente un quantitativo che nemmeno il Picchi del Cibreo oserebbe! Ma è che  improvvisamente mi è ritornato in mente quando mio padre a metà anni sessanta ci portò in Inghilterra a bordo di una fiammante seicento.

Che c’entra dirai. C’entra c’entra. Spesso mangiavamo a sacco ma a volte osavamo i ristoranti. Stanco di quello che gli propinavano, una sera il babbo con grande sgomento di tutti noi tirò fuori la sua bottiglia d’olio e con passo fermo e assenza totale di inglese entrò in cucina e riuscì a farsi cuocere una semplice braciola di manzo con il suo olio. Il cuoco era pietosamente incuriosito e forse anche un po’ schifato, ma noi eravamo molto molto contenti e orgogliosi del nostro babbo! Eh sì è proprio buono il nostro olio… il più buono del mondo… e non si incazzino gli altri… è una questione di amore!!! E non solo.

L’olio migliore del mondo

bibozL’olio che trovi in giro, al supermercato, è fatto da imbottigliatori, non da produttori, il prodotto è un assemblaggio. Nel mondo dei produttori d’olio c’è  molto dilettantismo, siccome è genuino ognuno è convinto che il suo è l’olio migliore del mondo. Puoi dirgli che sua madre è una zoccola, ma non che il suo olio ha dei difetti.

Bibo Zamparelli è un piccolo produttore di olio (10 ettari) nella sua azienda di Cerreto Sannita, nel Beneventano, a 300 metri d’altezza. Produce 3 tipi di olio, un blended alla maniera tradizionale e due monovarietali.

Anch’io all’inizio ero convinto che il mio fosse l’olio migliore del mondo, me lo dicevano tutti gli amici. Fino a quando, per caso, ho incontrato un assaggiatore professionale. Alla riunione di una ventina di produttori locali in cui dava i risultati dei suoi assaggi, volevano linciarlo. Me ne andai con la coda tra le gambe per il giudizio sul mio olio e cominciai a studiare come migliorarmi.

Per due anni ho sperimentato con i monovarietali e con la tecnologia del frantoio. Oggi faccio da riferimento anche per altri produttori, che al frantoio dicono – Mi faccia l’olio come Zamparelli -. Ogni anno ricevo qualche premio, che fa bella mostra di sè al frantoio. E’ anche per questo che mi lasciano abbastanza iniziativa da manovrare le macchine a modo mio. Così sono uno dei pochi produttori di olio che ha un controllo su tutto il ciclo di produzione.