Risparmio

Nella vecchia sede della Cassa di Risparmio di Torino in via XX Settembre, oggi Unicredit, concepita internamente come un tempio greco, sui quattro lati rilevate in bronzo stanno le parole

MDCCCXVII QUAE LEGO QUAE SPARGO SEMINA MULTIPLICO MCMXXXIII

NELLA VOLONTA’ TENACE DEL POPOLO ITALIANO DI LAVORARE E RISPARMIARE E’ UNA SACRA GARANZIA DEL SUO AVVENIRE

DIETRO OGNI RISPARMIATORE VI SONO ALTRETTANTE SANE FAMIGLIE CHE FORMANO IL NERBO DELLA NAZIONE

IL RISPARMIO E’ UNA COSA SACRA E SI AMMINISTRA CON SCRUPOLO RELIGIOSO

A qualche isolato di distanza, in via San Francesco d’Assisi, Intesa San Paolo ha dato vita 80 anni dopo al Museo del Risparmio, nella vecchia sede centrale, prima di trasferirla nel grattacielo che insieme a quello della Regione Piemonte (l’Occhio di Sauron) marca, come vollero giunte di sinistra, lo skyline della città. Grattacielo già fatiscente prima ancora di terminarsi e caratterizzato dalla curiosa soluzione di avere un ristorante all’ultimo piano e la cucina negli scantinati, in modo che i piatti non si risparmino prima di arrivare in tavola.

Museo del Risparmio, quanto è appropriato quest’esito della cosa sacra, quando ormai il risparmio, quello piccolo almeno, è — più che impossibile, inutile! Quello che non ti ha raschiato via il Grande Croupier, lo Stato, ti sarà legalmente depredato dal suo compare, la Banca. Interessi zero, anzi negativi! Obbligo di conto corrente! Cashless society!

E’ il Museo del Risparmio, come vogliono i tempi, assai multimediale, in modo da piacere ai giovani e teneri cervelli, frequentatissimo da scolaresche, prone all’indottrinamento democratico e keynesiano. L’inflazione è dei prezzi e determinata dal mercato, non della massa monetaria e determinata dalle banche centrali, tanto per dire. Giustamente concepito come dispiegamento delle mille pieghe dell’opinione, non sia mai un minimo squarcio della tela.

Così sta tra le scritte della prima sala, graficamente disposte, questa frase di Winston Churchill

IL RISPARMIO E’ UNA BELLA COSA. SPECIE SE A RISPARMIARE PER TE SONO STATI I TUOI GENITORI.

Parole profetiche nella città del debito, contratto da chi ama stare sotto in ginnastiche sessuali ma sopra quando si tratta di pagarlo. La nouvelle vague amministrativa si dimostra sul tema mero ricambio generazionale, con un di più di rancore, invidia sociale e ipocrisia (ah le multe perché giuste!). Siamo sempre là, Tutto Per lo Stato, Tutto Nello Stato, Niente Al Di Fuori dello Stato, altro che antifascismo militante.

Rimedio universale, naturalmente, la comunicazione, o una app, come dice la Bugiarda. L’ultima idea dell’assessorato, nel piano di riqualificazione di via Nizza, è la realizzazione di un’app: pedoni e automobilisti, passando davanti ai negozi, riceveranno sullo smartphone messaggi con offerte e promozioni. Via Nizza insomma «diventerà una via smart», promette Maria Lapietra, assessora alla viabilità.

E sarebbe divertente vivere in un posto del genere?

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Ma per cortesia, me ne vado una mattina in campagna, dopo aver dimenticato a casa il vecchio Nokia, a incontrare il padrone di un furgone sequestrato dai municipali di Ovada per divieto di sosta, cantiniere di una piccola cooperativa, certificato bio ma niente foglia verde in etichetta, perché comunicare è aver già comunicato. Dove valgano dei principi di giusnaturalismo e un bianco sia a lunga macerazione perché si possa difendere da solo, e dove in un angolo stia un vino per caso, una botte di dolcetto 2012 senza solfiti aggiunti pieno in bocca come un piccolo amarone, che prenoterò per il prossimo settembre.

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Il dolcetto e la lontananza

Cosa mi piace di Fabio Somazzi dello Zerbone? Che non c’è sito web e neppure targa in strada a indirizzare. C’era, fu tolta in seguito a lavori stradali — siamo o no un paese keynesiano? apri la buca chiudi la buca, non è così che si crea ricchezza? — e mai più ripristinata. Da allora sono finite le visite di controllori, effetti benefici della non-comunicazione, a volte basta poco per stare meglio.

La modestia. Mai si considererebbe l’erede di Pino Ratto, che ha conosciuto e stima, di cui ha assaggiato verticali di dolcetto andando a ritroso fino agli anni ’80. Eppure i suoi dolcetti d’Ovada hanno le stesse potenzialità d’invecchiamento, mantengono nel tempo una freschezza sorprendente. Con Pino Ratto condivide anche le origini liguri e di essere capitato nell’ovadese per caso e di esserne diventato interprete.

Il suo italiano leggermente incerto, dovuto a matrimonio con donna svizzera prima di trovarsi inconciliabili. Ancora oggi usa il suo tedesco per passare periodi di lavoro in Svizzera, come cantiniere o viticoltore esperto – sì, anche là si fa del vino. E’ pagato molto bene, secondo parametri italiani, peccato debba pagare le tasse in Italia. Prima di Ovada, il suo percorso è passato per Alsazia, ho visto tanta solfitazione, Svizzera, ho visto tanto zuccheraggio, Toscana, ogni sei mesi cambiava proprietario e si reimpiantava e si ricominciava da capo.

Essere e non dichiararsi biodinamico. Non aggiungere solfiti dal 2009, senza che ciò abbia accorciato la vita dei suoi vini, bianchi compresi. Vedersela con un’uva in disgrazia come il dolcetto o snobbata come il cortese e farne cose interessantissime. Doverlo incontrare alla Terra Trema, e poi andare a trovarlo là da lui e poi darsi arrivederci qua da me, come un’applicazione del teorema che l’incontro esiste su base di lontananza.

In scala Scoville

Cenai in albergo. Constatai incredulo che abbassavo la media anagrafica della sala. L’indomani visitai una spiaggia invernale e Grottammare di sopra, uno dei borghi più belli d’Italia, da dove meditai con raccapriccio un lungo scorcio di litorale adriatico compatto di fatiscenza. Mi misi in viaggio per Scerne di Pineto. Cercavo il piccante.

Girai dopo l’ipermercato, Paolo Rossi mi aspettava in una Campagnola. Non c’era molta strada da fare, l’ultimo portone dopo i capannoni dava sull’uliveto e la collina. Una costruzione stretta e lunga fa da ricovero attrezzi, punto vendita e casa — labili distinzioni dove vita e agricoltura sono pentola e coperchio. Paolo Rossi potava.

E’ Paolo Rossi dell’azienda agricola Lu Cavalire biodinamico olivicultore e coltivatore di peperoncini, molto critico verso le pratiche agricole convenzionali e la nuova farmacia biologica. Il 2016 è stato un anno disastroso per l’olio bio, la mosca dappertutto. Dalle sue parti ha resistito meglio l’oliva tortiglione, piccola e rustica, che dà un olio amaro e piccante. Si chiama così perché il fusto dell’albero cresce come un cavatappi, in una relazione ostinata con la luce. Esorta a non fidarsi dell’olio che non sai, l’olivo assorbe i veleni e i vincoli dell’economia fiscale non aiutano il rispetto dei tempi di carenza. La sua produzione 2017 è già tutta prenotata e prevede che il prezzo-sorgente salga a 20 € al litro in pochi anni.

Coltiva una ventina di varietà di peperoncino, una locale, le altre da diverse provenienze tropicali. E’ territoriale ciò? Sostiene di sì, peperoncino triturato non manca mai nella cucina del luogo, lo posso confermare. Ma credo che ci sia un fascino nella forma e nei colori di questi frutti rischiosi, che possono esaltare un cibo e anche un vino o guastare tutto, che richiedono autocontrollo per esprimersi come spezia, allusioni gustative della capsicina e non mera scala quantitativa. Gli insetti impollinatori hanno creato degli incroci e lui sta selezionando i semi per avere le sue proprie varietà.

E’ tutto fatto con rigore, gli essiccati sono interi così puoi triturare tu stesso e sapere cosa ci metti dentro, quelli sottolio sono tagliati a mano, l’Uje Sande – peperoncini a macerare nell’olio un tot di settimane, niente <aromi naturali>, anzi mi fa passare per sempre la voglia di mangiare qualcosa aromatizzato al tartufo.

Chiedo se si potrebbe fare del miele di peperoncino. Ci pensa un attimo. Ci vorrebbero cinque ettari coltivati a peperoncino, una superficie corrispondente al fabbisogno di Italia e Svizzera messe insieme, a parte questo, perché no?

Riccioli

Mezza giornata di fuga dal bio tra vignaioli consapevoli senza timbro bio (va in questa direzione il mondo? No, va in direzione timbro).

Giova pialla dei listelli di pioppo, fa dei riccioli per compiacere l’amico Scagliola, che li mette in certe confezioni che vanno all’estero, dove questi riccioli sono apprezzatissimi. In effetti, che macchina potrebbe farli, ciascuno così precisamente unico e uguale, come le onde del mare, se non la pialla di Mario padre di Giova? Uno strumento così tornito dall’uso, che mi viene voglia di piallare.

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E’ Giova reduce da un mezzo trauma cranico su piste da sci. Gli infermieri continuavano a chiedermi che giorno è oggi, e io a rispondere, una giornataccia. A spiegare che quando cade una scatola vuota, non si rompe e non succede nulla.

Mi accordai per il Lato B 2015, appena le giornate si accorciano. Vino spettacolo, non solo alcol, ma cose, in se stesso, e una dolcezza senza zucchero. La cattiva notizia è che sia tu che io lo pagheremo più caro. Non sto a dire che lo merita, giudicherai tu.

Pranzo alla Viranda, noi coi migliori da anni veri gnocchi di patate con pomodoro fresco e Toc d’Angelina, deliziosa barbera a basso prezzo. I tedeschi che arrivano invece vanno a colpo sicuro, pasteggiano con l’Augusto Brut.

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Intanto Tonino chiudeva sul serio. Vendeva l’attrezzatura pezzo per pezzo, affittava ad altri con maggiore struttura le vigne (ora in conversione. Lui le guarda e non è convinto). Non si divertiva più. Ritiratosi sulla ridotta delle nocciole.

Valdibella agricoltori.bio

Dal 3 giugno 2016 è aperto a Torino in via Genè 5 un punto vendita bio a filiera corta, dove fare una spesa bio non svuota il portafoglio. Si chiama Valdibella agricoltori.bio . In primo piano sta il fresco (frutta e ortaggi) e lo sfuso (legumi, cereali, frutta secca e altre materie prime). Vi si fa anche del pane con una forte personalità e un po’ di cucina da campo.

Il vino c’è, ma in secondo piano. Vinologo è tra i soci fondatori dell’impresa. Perché?

C’è con la Cooperativa Agricola Valdibella una consuetudine ormai decennale, diventata amicizia. Quando incontro le persone della cooperativa siciliana, sempre rimango colpito dalla pazienza, dall’assenza di disperazione, dalla fiducia interna che le cose buone vanno un passo alla volta. Ne esco un po’ guarito, come la donna che Gli toccò la veste in mezzo alla folla.

C’è l’apripista, il Marché Bio des Tanneurs a Bruxelles, visitato due volte, trovato un posto molto vivo, nel segno della qualità senza nome. Valdibella agricoltori.bio è su quelle stesse orme.

C’è il progetto, che è un progetto di mercato – evitare il modello convenzionale del bio, dominato dalla logistica, che mette in tensione il consumatore e il produttore, offrire un bio popolare – ma anche uno stile di vita: stare essenziali, ricordare che le piccole cose in cui ci perdiamo sono su uno sfondo più grande di noi.

Apprendista panettiere a Namur

Perché siamo interessati all’esperienza di Umberto Salussolia, apprendista panettiere, può non essere evidente al momento, ma diventarlo nel tempo. Questa è la sua relazione di un breve soggiorno di formazione a Namur presso la Boulangerie Legrand.

artisan_ambacht_350Alla tavola di casa Legrand, Angela sfoderò uno dei sorrisi migliori del repertorio e mi disse “Sai, è questione di trovare l’equilibrio. Prendi me e Dominique. Io sono il saper dire del suo saper fare”. Raramente mi sono trovato così d’accordo con qualcuno.

Trovo che l’arte della panificazione sia un esempio perfetto della ricerca dell’equilibrio. Bisogna unire sapientemente gli ingredienti, aggiungere il lievito, lasciare che il sale metta un freno all’esuberanza della pasta e saper aspettare.

Ma nella panificazione così come nella vita la semplicità non è semplice, l’essenzialità è un risultato. Come Michelangelo liberò la Pietà dal marmo in eccesso, così Dominique ha liberato il Pane da quello che al pane non serve per essere buono e specialmente sano.la_colazione

Il pane dei Legrand, frutto dell’esperienza di sei generazioni che imparano dai tentativi dei padri, punta a rieducare il palato ai sapori originali di cereali, il più possibile locali e rigorosamente biologici, uniti a tecniche di lievitazione che richiedono almeno 24 ore, così da dare il tempo al lievito di demolire la gran parte degli zuccheri e far decadere la tossicità della farina. Amare il prodotto finale richiede qualche giorno, abituati come siamo a un pane pieno d’aria, di additivi, di correttori di acidità, di zuccheri aggiunti e di farina bianca (mettiamoci il cuore in pace: il pane bianco non può essere pane sano).

Non sarà l’aspetto del pane, che pure ha le sue ragioni e il suo fascino, a farvi rimpiangere gli sforzi della Boulangerie Legrand una volta che vi sarete allontanati da Namur. Se l’occhio non è appagato da una mollica lucente o molto alveolata, dopo qualche assaggio si imparerà a distinguere il farro dal frumento dalla segale, in una riscoperta del sapore di ciò che mangiamo che ha rivoluzionato il mio rapporto con il pane.

Per Jean Cardonnel, teologo domenicano, quando gli uomini condividono il pane condividono la loro amicizia. Credo che sia questa l’essenza del lavoro di Angela e Dominique: mostrare la stretta connessione tra ciò che sono, ciò che fanno e ciò in cui credono, dando vita a un prodotto che ha la sua principale ragione di esistere nel fare bene agli altri.

Il resto, l’eleganza del gesto creativo dell’artigiano esperto, che dall’ammasso vivo della pasta forma ciò che andrà a cuocere tra getti di vapore e nuvole di farina, non lo si può raccontare ma solo balbettare.

Grazie a Dominique e Angela ho capito come riannodare lo sfilacciato rapporto tra l’uomo occidentale e il pane: ricominciare dal buono che fa bene puntando al bello.

Facile? No. Ma c’è speranza.

Pane Graal

Negli ultimi mesi mi sono molto occupato di pane. Ho visitato diversi panettieri bio, praticato di persona i misteri della pasta madre, mangiato molto pane, come non facevo da quando accertai che stavo meglio senza.

La sintesi di questa indagine è che bio-ma-buono non è una realtà ordinaria. C’è il pane sano e c’è il pane buono (quando c’è), ma si frequentano poco.

friantbread_652La pagnotta ancestrale è di grano tenero, una crosta brunita e croccante che trattiene una mollica alveolata e lucente, ma la selezione di cloni produttivi e del super-glutine l’ha resa meno simile a un nutriente che a un veleno.

C’è una via di mezzo, più o meno dichiarata, farine speciali con una percentuale di grano tenero, per non rinunciare alla leggerezza della lievitazione, ma la velenosità è più attutita che eliminata. Quanto pane di farro dovrebbe chiamarsi pane CON farro!

E c’è la via rigorosa, solo grani antichi integrali con poco glutine, una pagnotta più bassa con crosta spesso contestabile. Trovarci un po’ di leggerezza sembra andare in cerca del graal. Bisogna rinunciarci? E’ questo il nostro pane quotidiano prossimo venturo?

O pregheremo per una metonimia, alludendo nel pane a un generico nutrimento? E’ più di un dubbio, pensando che passammo dal chilo di pane quotidiano della Regola benedettina ai 60 grammi di oggidì. Pane messo peggio del vino! che non si consola dicendo ne mangio meno ma meglio.

Somma termica

Sentito il Presidente del Consiglio annunciare come razionale che i controlli non avvengano più uno dopo l’altro, ma tutti in una volta. Contando 14 controllori abilitati in agricoltura (fonte Coldiretti), viaggianti in coppia, che forma prenderà la visita? Non era meglio abolire qualche tipo di sbirro?

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In vendemmia si sono ripetuti i controlli con elicotteri, foto aeree e vari dispiegamenti di forza, la Repressione Frodi e l’Ispettorato del Lavoro devono essere adesso accompagnati dai Forestali, che hanno le armi.

In Veneto ci sono stati dei problemi enormi, ma almeno il Presidente della Regione ha esortato gli sbirri ad andare a controllare le scadenze nei supermercati durante la vendemmia. In Piemonte invece la certificazione della qualità è sacra, come le tasse e i debiti.

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Claudio Rosso ha dovuto declassare la Barbera Superiore San Martino, la commissione di esaminatori l’ha trovata difettosa, con tratti ossidati e maderizzati. Il colore peraltro era a posto, dettaglio che già non quadra. Claudio ha avuto il torto di sottoporre oggi alla commissione la bottiglia invecchiata, è meglio, come sanno i barolisti, fare domanda d’idoneità subito, prima dell’invecchiamento, processo che evidentemente aggiunge e toglie troppe più cose di quante i sensi degli esaminatori siano disposti ad ammettere.

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L’annata è stata un’enciclopedia delle malattie, oidio, peronospera, tignola, suzukii e flavescenza. Portare a casa dell’uva decente è costato il 50% in più, tra prodotti e manodopera, e la quantità è scarsa, talora anche il 50% in meno. I biologici hanno avuto vita dura, ma anche i prodotti sistemici non hanno dato grande prova di sè.

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Massimo Rivetti è in conversione biologica. C’è sullo sfondo un movimento in Langa verso il bio, Ceretto per esempio, e in azienda l’entrata di uno dei figli. Ma è tempo che gli sento esprimere una convinzione interiore, una contentezza.

Sembra che l’annata, problematica o deprimente altrove, sia stata a Neive dignitosa. Non ha grandinato, non ha piovuto troppo e le uve, in particolare il nebbiolo e nonostante una somma termica inferiore di un quarto all’anno prima, sono più che decenti.

In cantina poi Massimo ha avuto una fermentazione liscia e veloce. Tende ad attribuirne la causa ai nuovi metodi colturali, dicono che il rame ostacola la fermentazione, ma io dovrei dire che la favorisce, usiamo solo rame.

Mi mostra una decina di barrique messe in verticale dove sperimenta una fermentazione più lunga, con batonnage e ossigenazione maggiore. Se mi soddisfa, investirò in qualche tino troncoconico. Sorride, pensando a come i passi avanti somiglino a passi indietro.

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Strade Sterrate! Le uniche ormai a consentirti di scorciare. Oh gioia euclidea di unire sobbalzando due punti per la via più breve, dimentichi per un tratto del tortuoso senso unico urbano, imposto dall’indimostrabile intelligenza assessorile del bene comune. Quanto risparmio di tempo e di carburante e di inquinamento dalla semplice abolizione del Senso Unico! Questa sì sarebbe una riforma, che libera energia psichica, che ti scatena dallo spazio amministrato.

Anche solo per queste associazioni d’idee saremmo sostenitori del Collettivo Strade Sterrate, una blanda rete di viticoltori bio con attestato o senza, il cui elenco deve stare soprattutto nella loro testa, perché non sono riuscito a entrarne in possesso.

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Strade Sterrate si materializza per ora in due vini, RossoUnito e Bolle Senza Frontiere, concepiti come unione di vini di provenienza diversa attratti dall’amicizia e l’idem sentire di chi li fece. Nel rosso, imbottigliato a Offida, abitano il Sulì del Cont di Claudio Solìto della Viranda, il Piceno di Aurora e del gaglioppo calabrese di non ricordo chi. Risultato buonissimo, rapporto qualità-prezzo da nodo al fazzoletto.

Vini di vini dunque, un settimo continente dei terroir, che trova meno consistenza nell’orgoglio del sostrato geologico che nella nostra comune ignoranza dell’humus.

bollesenzafNel bianco abitano del cortese di Valli Unite, del pecorino di Aurora, un po’ di mantonico calabrese e del mosto di chardonnay di Claudio Solìto. E’ un rifermentato in bottiglia ma sboccato – si vede che a Claudio non piace il sedimento. E’ lui infatti che l’ha imbottigliato. Anche le bolle sono BPG – buone pulite e giuste.

Sono etichette dove c’è da leggere, perciò ne riporto le parole.

Rossounito. Questo vino nasce da un progetto tra viticoltori prevenienti da territori lontani ma vicini nei valori e nel modo di sentire, che vogliono confrontarsi, rompere con gli stereotipi culturali ed affermare la superiorità della sola e unica madre terra, mescolare la passione per la vita/e e i suoi molteplici linguaggi per dare l’avvio ad un’unica musica.

Bolle Senza Frontiere. La salvaguardia del territorio, la restituzione del valore della socializzazione, dell’incontro e della discussione, sono gli obiettivi del Collettivo Strade Sterrate che, dopo Rossounito, coinvolge altre persone ed esce con questo vino frizz_andino, sinonimo di festa e leggerezza. Un viaggio al di sopra di ogni mercificazione.

Tajarin

Di dicembre rimarrà il metodico scuoiamento — saldo dell’immondizia, acconto ires e irap al 102,50% (cosa sarà mai il saldo, nella spudorata neolingua?), deducibilità al 20% dei costi di trasporto (preparare Opinione Pubblica, di seguito OP, con articoli su invecchiamento parco macchine. Accogliere Gruppi di Pressione, di seguito GP, con emendamento acquisto OBBLIGATORIO nuova auto aziendale), acconto iva.

Fatti un giorno spiegare l’esoterico funzionamento di una nota spese italica, pranzo di lavoro in comune esterno, con tua quota detraibile all’x% e quota degli ospiti detraibile all'(x-y)% in cinque anni, per portare ai livelli di remunerazione del conto corrente la tua residua speranza che le cose si possano riprendere. Altro che cacciavite. Altro che caterpillar.

E in mezzo l’insostenibile gioia per la nascita del Bambino. Tu ci schianti tra realtà e vangelo.

Di dicembre rimarranno due parole col Corsaro, che mi invita ad alzare gli occhi al cielo, come Geminello Alvi. E l’incontro che ebbi con Mauro Musso ad Alba.

E’ Mauro artigiano dei tajarin e gourmand di nuova generazione, quello che arriva al gusto nella sua ricerca dei rimedi, espertissimo di quanto ci sia bio.

Per i suoi tajarin, farine di Marino — quelle di Sobrino andrebbero altrettanto bene ma la macina è meno fine e inchioda la macchina della pasta. Imparo che per la farina l’industria toglie del seme la pellicola esterna e il cuore interno, la crusca e il germe, lasciando solo l’endosperma.

E’ il tipo che va a farsi fare il pane con le sue farine a Calcinere, per incorporarne acqua e aria, 70 chili alla volta da scongelare via via. Beve solo caffè Blue Mountain giamaicano, in grani, si macina ogni volta la dose che serve.

Inquadramento storico della pasta all’uovo: nella civiltà contadina veniva fatta quattro o cinque volte l’anno a celebrare matrimoni e battesimi. Il ragù di carne accompagnava anche lui la mancanza di calcolo della festa.

Pranzo a casa sua, prepara lui. Tajarin di farro monococco con burro e salvia e tajarin della tradizione con ragù di carne, croccanti come una pasta di Gragnano. Portavo con me una bottiglia di dolcetto di Cascina Corte, ma lui preferì accompagnare con un bianco a lunga macerazione, il Muntà di Andrea Tirelli, così che lo scoprii.