John Irving, direttore di Slow Magazine, non è meno un italiano di Carlisle che un inglese di Torino. Siamo molto affezionati a John, per la classe e l’umorismo (ciao John!). Mesi fa gli avevamo chiesto cos’era vino quotidiano per lui. Ecco infine cosa ci ha mandato.
Ho bevuto il vino per la prima volta in una giornata di primavera di tanti anni fa. Ogni sabato mattina andavo con mio padre a fare un giro nel centro di Carlisle, la cittadina inglese in cui sono nato e cresciuto: in particolare, alla biblioteca comunale – lui a leggere i giornali nella sala consultazione, io a prendere in prestito romanzi di avventura e fumetti di Tintin. Si partiva a piedi e, durante il tragitto, era facile trovare gli amici di mio padre, vecchi incoppolati, appostati agli angoli dei vari isolati di Botchergate, la via principale. A mio padre piaceva fermarsi a fumare una sigaretta e parlare con loro di calcio e cavalli ma, per me, era una noia mortale. Lui chiacchierava amabilmente e io stavo zitto: I bambini devono farsi vedere, ma non farsi sentire si diceva allora. Dixie lo chiamavano mio padre: un po’ a mo’ di vezzeggiativo (di secondo nome faceva Dickinson), un po’ perché amava il jazz.
Qualche volta, ma raramente, ci raggiungeva Ivor Broadis – londinese, giornalista, ex calciatore, interno della nazionale inglese negli anni Cinquanta (14 presenze con partecipazione ai Mondiali del ’54 in Svizzera) -, al volante della sua fiammante Ford Cortina.
Ciao, Dixie, vuoi uno strappo?
Sì, grazie, Ivor.
Il tono confidenziale adoperato dai due uomini mi riempiva di orgoglio. Mio padre che parlava da amico con un ex nazionale inglese (per quanto sfigato, avendo finito la carriera nel nostro Carlisle United, allora in Division 4)!
Farsi portare in macchina in biblioteca da lui poi…
Quel sabato, usciti dalla biblioteca, mio padre, allegro per la bella giornata di sole, disse:
Perché non compriamo una bottiglia di Boo-gioo-leiii?
Una bottiglia di che?
Voleva dire Beaujolais: era l’unico nome di vino che conosceva.
Boo-gioo-leiii.
Come gli piaceva dire quella parola.
Allora la piazza centrale di Carlisle non era la zona pedonale circondata da grandi magazzini tutti uguali – i nomi cambiano, ma vendono gli stessi oggetti – che è diventata oggi. Allora l’unico grande magazzino era Marks and Spencer’s, la facciata del quale recava una targa:
QUI HA SOGGIORNATO IL PRINCIPE CARLO EDOARDO STUARDA, IL GIOVANE PRETENDENTE, CAPO DELLA RIBELLIONE GIACOBITA DEL 1745
Io, ragazzino, mi chiedevo come mai un principe avesse scelto di dormire in un supermercato, visto che c’è un bel castello normanno a duecento metri di distanza.
Allora, dicevo, la piazza era circondata da piccoli negozi e botteghe: tabaccherie, librerie e, di fianco all’albergo Crown and Mitre, un altisonante Wine Merchant, o mercante di vino.
E’ lì che entriamo. Con la goffaggine tipica degli inglesi quando devono parlare con uno sconosciuto, mio padre fa:
Buongiorno, desidero una bottiglia di Boo-gioo-leiii.
Una bottiglia di che? risponde, perplesso, il mercante di vino.
Boo-gioo-leiii!
Ah, Beaujolais.
Il mercante di vino, lui, distinto e imbrillantinato, sfoggia un accento francese assai convincente.
Sì, quello lì.
Quale?.
Come quale?.
Il mercante snocciola un elenco di dénominations e maisons e appellations e, alla fine, un po’ confuso e un po’ umiliato, mio padre si accontenta di una mezza bottiglia del Beaujolais che costa meno.
Del primo mezzo bicchiere di vino consumato a casa al posto della Coca-Cola insieme al consueto pranzo del sabato – uova, salsiccia e patatine fritte – ricordo solo il sapore asprigno. Un sapore nuovo per il mio palato. Non è che mi piacesse molto, ma ricordo anche che, dopo pranzo, giocando a pallone con gli amichetti di quartiere nel vicolo dietro casa, i colpi di tacco venivano meglio del solito. Molto meglio…
***
La seconda volta che ho bevuto il vino, ero a Londra e c’entrava sempre il pallone. Noi del Carlisle United, a quel punto in Division 2, avevamo pareggiato in Coppa d’Inghilterra contro i campioni del Tottenham Hotspur, squadra da sempre in Division 1. 1-1, un risultato storico per noi. Dopo la partita, avevamo ore e ore da ammazzare prima di prendere il treno di mezzanotte, e così eravamo andati a festeggiare in un ristorante persiano (tale si definiva, anche se i camerieri a me parevano pakistani).
Mio padre inforca gli occhiali e studia la lista dei vini. Dice che l’evento merita qualcosa di speciale. Questa volta, al posto del Boo-gioo-leiii, sceglie una bottiglia di Mateus Rosé (secondo me gli piaceva il nome perché ricordava quello di Mateos, centravanti del Real Madrid degli anni d’oro, la sua squadra preferita).
Cameriere, una bottiglia di Mateus Rosé, per favore.
Il cameriere porta la bottiglia in un secchio di ghiaccio.
Visto che locale di classe? mi sussurra all’orecchio mio padre, prima di assaggiare il vino.
Ottimo. Il vino migliora con l’età! esclama.
Ma è solo dell’anno scorso, ribatte il cameriere.
No, intendo dire che più invecchio io, più mi piace il vino, chiude il discorso mio padre, tentando di imburrare un sottobicchiere in rafia che ha preso per una fetta di pane integrale.
Della bottiglia di Mateus Rosé divisa fra noi due, ricordo il sapore amabile e le prime sensazioni di ebbrezza. Del viaggio di ritorno da Londra a Carlisle ricordo poco, invece. Mi hanno raccontato che, all’arrivo, nel cuore della notte, svegliai mezza città urlando Carlisle United, champions of Europe!. Per anni mio padre ha sdrammatizzato il suo ruolo nell’episodio ma, sul fronte vinicolo, ha sempre sostenuto che Il Mateus Rose è meglio dello champagne!.
***
La verità è che, quando ero ragazzo a Carlisle, si beveva soprattutto birra. Attraverso gli occasionali flirt col vino, mio padre si toglieva uno sfizio: faceva finta di aspirare a una dimensione di vita più raffinata di quella a lui abituale. In realtà, anni prima, appena tornato dalla guerra, aveva avuto dei problemi con l’alcol. Trascorreva troppo tempo – e, soprattutto, spendeva troppi soldi – al Constitutional Club, un pub vicino a casa. Un giorno mia madre gli aveva lanciato un secco ultimatum: George, hai tre bambini da sfamare e un mutuo da pagare. O smetti di bere o non ci vedi più!.
Da allora, non aveva più bevuto, o quasi.
Jimmy Wilson, un nostro vicino di casa, un tipo grande e grosso dalla faccia rubiconda, ci dava dentro, invece. Passava la vita a scommettere e a bere: dall’allibratore e al pub.
Metti il cappotto che vado al pub! urlò una sera a Frances, sua moglie.
Vuoi dire che porti anche me questa volta?.
No, voglio dire che spengo il riscaldamento prima di uscire!.
Insomma, trangugiare birra era la norma. Per noi, dimostrare di saper tenere giù grandi quantità di birra senza ubriacarci costituiva una specie di rito di iniziazione all’età virile. Ogni lunedì sera, dopo la scuola (proprio così!), si faceva il giro dei pub cittadini, una pinta per ogni locale. C’è poco da fare: per motivi storici e climatici, certe culture privilegiano la quantità rispetto alla qualità, con tanti saluti al gusto e al piacere. Avendo fatto parte di quel mondo, posso dire che, per quello che vale, si imparano presto i propri limiti. Una notte, dopo essere stato lasciato, paralitico, sulla soglia di casa dagli amici, e dopo aver calpestato il cane e urlato cose irripetibili (Cosa ho detto? ho chiesto a mia sorella. Non si può ripetere, mi ha risposto, sorniona), ho deciso di abbandonare quella cultura. Di rinunciare al rito. Addio Inghilterra, buongiorno Italia. Addio birra, buongiorno vino.
Mio padre era triste: Con chi parlo di calcio d’ora in poi? ripeteva, sconsolato. Ma, alla fine, la mia decisione si rivelò una pacchia per lui: ogni volta che tornavo a casa gli portavo bottiglie di vino che custodiva gelosamente e conservava per ipotetiche occasioni speciali. Quando morì (il 16 novembre 1989: ricordo la data perché proprio quella sera – scherzo del destino e incrocio di destini – l’Italia pareggiò 0-0 in amichevole con l’Inghilterra a Wembley), andai su per il funerale. Negli armadi di camera sua trovai bottiglie e bottiglie di Barbaresco e Barolo e Brunello di Montalcino, nonché alcune vecchie foto di una ballerina polacca, ricordo della sua esperienza da soldato a Napoli nel famigerato 1943. Ma questa è un’altra storia…
Ad accompagnarmi al funerale c’era il mio ex suocero. E’ stato lui – uomo tutto di un pezzo e perfetto patriarca del sud – a introdurmi al piacere del vino quotidiano: che voleva dire vino a pranzo e a cena nei giorni feriali e dal mattino alla sera durante il weekend (compreso l’aperitivo del sabato che consisteva in 12 ostriche – 6 a testa – e una bottiglia di Berlucchi).
Dopo la cerimonia, mia madre organizzò un ricevimento per gli ospiti. Panini, dolcetti e tè.
Tè! sbotta il mio ex suocero, scioccato. Va’ a comprare del vino, va’! mi dice, mettendomi in mano delle banconote.
Eseguo gli ordini e torno dopo venti minuti con un sacchetto pieno di bottiglie: le zie di mia madre, puritane fanatiche, inarcano le sopracciglia. Per loro l’alcol costituisce peccato comunque: figuriamoci al funerale di mio padre.
Un’ora dopo, il disprezzo si trasforma in scandalo quando il mio ex suocero, annoiato, si alza e mi fa: Dai, andiamo in centro a prendere un aperitivo!
E così facciamo, proprio al bar dell’albergo Crown and Mitre. Al nostro ritorno, silenzio assoluto e sguardi torvi. Mi piace pensare che, se non fosse stato cremato, mio padre si sarebbe rivoltato nella tomba. Per l’ottusità delle zie, non per il consumo di alcol al suo funerale. Ma quanto scassano ‘sti puritani, diceva il mio ex suocero.