Piceno

Offida è uno dei nomi della lontananza. Ci arrivi di sera, non la visiti ma la percorri un tratto con uno scopo, il tempo d’incrociare una banda di ottoni che esce da un circolo, ascoltare due donne che parlano quiete nel loro accento, farsi sorprendere da un luogo d’Italia dove si puo’ vivere senza soffrire troppo. Ci mangi per la prima volta le olive ascolane.

Ci son volute ore di strada e nebbia, nebbia e strada. Esci dal casello sulla Riviera delle Palme, le palme ci sono e la nebbia anche. Verso Ripatransone vedi una pecora in mezzo a una vigna. Il paese è abbastanza alto da stare sopra la nebbia. Ti affacci e vedi le cupole convesse delle colline e le cuspidi dei calanchi, pensi a una pittura del Rinascimento, il malcostruito sta sotto le nuvole.

Perché sei qua? Per Ciù Ciù.

Hai attenzione e ospitalità oltre i tuoi meriti, si tenta la visita alle vigne ma la nebbia ne fa una visita parlata, vedi i filari a ritocchino che scendono precipitevoli ma non fino a dove. L’ambiente è famigliare e indaffarato, la semplicità in primo piano, il calcolo sullo sfondo.

Il vino del Piceno, se non delle Marche, ha un momento di vita, i bianchi sono di moda, i rossi importanti sono esportati, si consuma in zona una buona percentuale di quanto le aziende producono, mentre la Toscana è in affanno e il Piemonte poco meno. Si spiega con i cicli o c’è un altro perché?

La mattina fai colazione nel polifunzionale di una volta, il [bar edicola alimentari], cappuccio caffè e due briosce — 3 euri e 20. Mentre ti lascia lo scontrino, la padrona ti guarda negli occhi e ti telepatizza la risposta: cogli il nesso?

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