Ha chiuso il sipario a San Martino. Il papà di Giovanni, Mario, se n’è andato nel sonno a 92 anni, evitando i camici bianchi e una fine peggiore. Soffriva da qualche anno di una neuropatia che lo obbligava a passettini così corti da lasciarlo sul posto, come quei sogni che ti angosciano. La stessa malattia dell’ultimo Romano Levi.
Giovanni, Mario, ah dolci nomi italiani per sempre.
Chiedo a Giovanni che tipo di agricoltore è andato.
Un agricoltore. Non ci sono molte cose da dire. Non so dirti cosa ho imparato da lui perchè sono cose passate in me con la lunga consuetudine. Che fosse di un’altra generazione l’ho capito quando ho cercato di spiegargli la fermentazione malolattica, ma in vigna non la so più lunga di lui, anzi.
Era un vitivinicultore. Aveva un parente nelle Ferrovie in città e riusciva a vendere le damigiane a Torino a un prezzo più alto di quello che si poteva spuntare a Calosso aspettando i clienti. Non era di quelli che cercavano la quantità di uva. Non che diradasse, ma magari vendemmiava in tre passaggi.
Non ho voluto fare i manifesti mortuari per il paese con mio papà con la cravatta in fototessera, ma a quelle cento persone che sono venute qui per le condoglianze ho mandato un biglietto. E’ una foto di mio papà che lavora a un mastello ovale di legno, tutto concentrato nell’opera. Gli ho messo una frase come l’ho trovata nel libro di Lupano. E’ molto adatta a mio papà.
…spero di non aver dato troppo disturbo al mondo…