Feste malinconiche che mi fanno pensare a chi non c’è più. A fami d’altri tempi, come quella di Braida il trebbiatore, che passava la vendemmia alla Martini. Costumava portare ciascuno una vivanda e tutte condivise facevano un pranzo. Una volta che arrivò tardi, si guardava intorno famelico. Poi prese due fette di pane, ci mise in mezzo l’ultimo pezzo di crostata e addentò.
Penso alla vita randagia di Caracciò, cestaio. Quelli di sopra hanno nome Caràcciolo, i randagi Caracciòlo Piero. 2000 lire era pagato un cesto di vimini intrecciati. Caracciò, fatti pagare di più. E’ za tut car, si schermiva.
Caracciòlo Piero aveva un gattino sotto la camicia e i cani gli andavano d’attorno. Forse per via della cotoletta che teneva in tasca tra i biglietti da mille? Forse. Ma quando qualcuno tirava un calcio a una bestia, diceva dàllo a me piuttosto.
Caracciòlo Piero aveva capelli lunghi e intrecciati come un rasta o un pastore bergamasco. Con i lembi della camicia teneva su i pantaloni e puzzava come nessuna vacca. Quando l’hanno spogliato per fargli la tac, c’era fieno per tutto l’ambulatorio.
Molti anni fa lo portammo in montagna all’Argentera. C’era la neve e Caracciò era senza calze e con due stivali sinistri tagliati a pantofola. Non aveva mai avuto documenti e al confine di stato sorsero problemi. Nome? Caracciòlo Piero. Nato quando? A Giuglio. Ma Giugno o Luglio? Giuglio.
Allora allargava le braccia e diceva: io pulito. Dieci volte almeno lo disse seguendo il carabiniere, che voltava il naso borbottando: sì pulito mia nonna.
Oggi sta all’ospizio di Incisa. A ottant’anni l’hanno lavato e rasato, non può fumare nè bere, pensa che lì sono tutti matti e fa malinconia vederlo. Date a Caracciòlo Piero il fienile, vino e una scorta di sigarette: camperà sicuro fino a cent’anni.