Mentre i produttori vendemmiano ho voluto ascoltare con più attenzione chi il vino lo vende. Elio Bergia fa il rappresentante di vini, la sua versione invernale può assomigliare a un ebreo ortodosso, l’eloquio è disincantato. Fino al 2000 si vendeva tanto, il vino era di moda, in borsa non era ancora scoppiata la bolla della new economy, i bond argentini sembravano credibili e i profitti facili passavano dal portafoglio di papà alle tasche dei figli. Erano loro a fare il mercato. C’erano wine bar a Torino da 70 bottiglie al giorno sbicchierate, con profitti molto alti.
E poi c’era la Guida di Slow Food, che faceva testo. Oggi se vado da un commerciante e gli dico: Guarda che questo è un tre bicchieri, quello non fa una piega, mi indica uno scaffale e risponde: Ecco, lì ci sono i tre bicchieri dell’anno scorso.
Oggi il consumo di vino lo fanno i pensionati. Ma dopo questa generazione? E’ che con la diminuzione dei redditi è venuto a galla qualcosa di strutturale nel mercato italiano: scarsa conoscenza nel grande pubblico e grande confusione nei prezzi.
Mentre in Francia le classificazioni dei vini hanno una tradizione secolare e c’è una corrispondenza tra prezzo e qualità, in Italia succede troppo spesso che un vino da 10 euro sia più buono di uno da 80. Così oggi resistono bene i nomi che hanno una storia, ma è un mercato difficile per gli outsider.
E’ che domina un falso concetto di qualità. Se leggi Columella, scopri che i Romani avevano delle rese per ettaro sui 10 quintali, perciò nella cena di Trimalcione potevano bere un vino che aveva 100 anni. Nell’Ottocento è incominciata una selezione metodica dei cloni più produttivi. Poi per cercare la qualità si è cominciato a diradare, ma non siamo più usciti dal regno della quantità.